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I cent’anni del Pci e la falsità storiografica

by Maurizio Ciotola

Oggi ricade l’anniversario del primo “frazionamento” a sinistra, che segnerà nella storia la consuetudine della genesi politica dei movimenti di sinistra in Italia.

Il 21 gennaio 1921, costituisce la data in cui l’incapacità di far sintesi nel movimento socialista, costerà al nostro Paese un ventennio di repressioni fasciste e una guerra mondiale disastrosa.

Cento anni fa, l’immaturità politica costituì la guida per realizzare quel disastro, cui l’idea di rivoluzione e la volontà di riscatto, cedettero negli anni a compromessi e ideologie inumane.

Cento anni fa non nacque la sinistra, ma incominciò a morire quella sinistra, fino ad allora deputata a costruire l’evoluzione di una classe soggiogata da una élite conservatrice e reazionaria.

E se dopo cent’anni non abbiamo alcun sopravvissuto politico di quella scissione, è evidente che più che “un esaurimento della spinta propulsiva”, come affermò Berlinguer in epoche più recenti, possiamo affermare che, quella spinta propulsiva, invece, ha portato al disastro della sinistra, al suo azzeramento.

Il partito comunista italiano è stato un’illusione “grafica” prima e storiografica dopo.

Una falsità storiografica che ha cercato e, ancora, per tanti versi cerca di costruire un mito, un mito avulso alla realtà, verso cui tendere.

Ha costituito il mito per tanti giovani e oppressi, che nella loro scalata all’interno del partito si sono trovati costretti a immobilizzare ogni spinta, cui quella mitizzazione rivoluzionaria li aveva portati, fino a rinnegarla.

I passaggi di una evoluzione democratica e di riscatto per le classi sottomesse e sfruttate dal capitalismo, nel nostro Paese non portano la firma o la spinta del PCI, ma di altri partiti laici o di politici fuoriusciti dallo stesso PCI.

Il partito comunista definisce la sua alleanza in una coesistenza di regime, insieme alla Democrazia Cristiana, già dai primi passi della Costituente.

Nell’ennesima lotta a sinistra, contro il Partito Socialista e altri partiti laici, troverà l’unione con la Dc per introdurre in Costituzione i patti lateranensi di matrice fascista.

Il Partito Comunista ha logorato fino a far estinguere la sinistra italiana, nel perenne baratto politico tra le idee e il conformismo ideologico, cui di volta in volta la sua classe dirigente si atteneva.

Rende l’idea in modo sconcertante Vincenzo Salemme, nel suo monologo sul comunismo, più delle tante parole dotte che cercano di giustificare aberrazioni e delitti, di cui il Comunismo e il partito comunista è stato responsabile.

Ricorrono anche i cento anni della nascita di Leonardo Sciascia, che da comunista uscì dal PCI, di cui ne “il Contesto” seppe darne una puntuale e profonda descrizione, non edificante.

Potremo ricordare le trattative parlamentari ed extraparlamentari tra DC e Pci, tese a bloccare riforme significative nel rispetto dei diritti umani, quali divorzio e aborto, cui solo il soccorso del referendum dei Radicali riuscì a confermare.

Dovremmo ricordare lo Statuto dei lavoratori, che approvato in Parlamento non portò la firma del Partito comunista, che ritenne di astenersi.

Come possiamo altresì dimenticare l’aggressione politica e sessista, che subì Pier Paolo Pasolini, altra vittima trasversale di una parte del PCI e della Dc, prima di Moro.

Non possiamo dimenticare la “finta” con cui nel tendere la mano ad Aldo Moro, egli fu indotto nella trappola mortale, di cui Berlinguer e Cossiga decretarono la morte.

E’ scomparso il partito socialista, dopo un travaglio poco edificante, in cui gli obiettivi riformisti erano chiari solo ad alcuni, troppo pochi perché potesse restare in piedi dopo tangentopoli.

Non vi è alcun lascito edificante per cui mitizzare o auspicare il ritorno di quei partiti a condizioni immutate.

Certo è che, l’arretratezza storica del nostro Paese non ha una matrice di centro destra o almeno non solo quella.

Il nostro Paese ha avuto il più grande partito comunista dell’Occidente, ma è anche a causa di quello stesso partito, unitamente alla Dc, che paga la sua arretratezza e immoralità.

Un’immoralità cui le parole del segretario del PCI condannarono e per le quali degli atipici comunisti pagarono con la vita nel combatterle, ma che il partito in ragione della sua tenuta, ha sempre metabolizzato e gestito non diversamente dagli altri.

Ci siamo sempre chiesti dove stava la questione morale cara a Berlinguer, quando questi insieme al padre di Gladio, Cossiga, ha ritenuto di sacrificare la vita di un insigne uomo politico e statista quale fu Aldo Moro.

A dire il vero avremmo dovuto chiedercelo prima, quando i dollari che Mosca inviava, giungevano anche attraverso le casse del vaticano.

In ultimo dovremmo chiederci chi e cosa fu quel morente PCI-PDS, con una classe dirigente immutata, quando nelle aule parlamentari decise di dar guerra a Falcone prima e Borsellino dopo, fino a decretarne l’isolamento e la morte.

Un partito che ha saputo sfruttare le tante oneste e genuine volontà di eguaglianza e giustizia, per poi assegnare in una visione egemonica e clientelare, incarichi nelle istituzioni e società di Stato a una parte della sua classe dirigente.

Di questi cento anni dovremmo parlare, contare i morti, i baratti umani e i diritti ripudiati, cui il Partito comunista fu responsabile.

Certo c’è anche Gramsci, cui sappiamo cosa subì da Togliatti prima e dopo la sua morte; ma lui dei cento anni del Pci, pur rimanendo un faro oscurato dallo stesso partito e da Mosca, non ha fatto parte se non nell’iconografia irreale.

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