Il premier ungherese Orban sta collocando sempre più l’Ungheria al di fuori del contesto Europeo non solo dei diritti civili ma anche nel campo dei diritti del lavoro.
Risulta evidente che la pandemia ha costretto i governi di tutto il mondo a politiche economiche che non erano mai state messe in campo.
Ed in tal senso si è mossa anche l’Ungheria, però non proteggendo i lavoratori e le persone in grave disagio come peraltro si è fatto in tutta Europa. Il governo del premier Viktor Mihály Orbán ha approvato in questa fase di emergenza provvedimenti sul lavoro che i sindacati definiscono «leggi di schiavitù».
Una condizione davvero imbarazzante che non esiste in nessun Paese democratico dell’U.E. che Luca Visentini, segretario generale della Confederazione europea ha definito in tal modo: “Orbán ha costruito un’oligarchia iperliberista sul modello russo”.
Infatti l’Ungheria non è solo il Paese che limita la libertà di stampa e mette sotto il controllo politico la magistratura, ma anche uno Stato che si trasforma in una colonia industriale per investitori esteri. A beneficiarne sono i gruppi stranieri che producono in Ungheria o intendono produrre in Ungheria quali la Volkswagen, Daimler, Bosch, Opel-General Motors, ma anche quelli rappresentati dall’American Chamber of Commerce che non hanno obiettato nulla sulla limitazione dei diritti dei lavoratori.
Si sta affermando anche nel campo del lavoro un modello illiberale che propende per lo sfruttamento e impone costrizioni i alla manodopera che rende l’economia magiara un caso unico in Europa. Basti pensare che a marzo e aprile scorso il governo ha deciso la sospensione del codice del lavoro e cancellato gli accordi collettivi in vigore, motivando questa gravi decisioni con la necessità di contenere la pandemia.
Ora ogni operaio è legato all’azienda da un contratto individuale, non più negoziabile dalle rappresentanze sindacali. Poi a fine maggio scorso Orbán ha introdotto per decreto, in base ai poteri straordinari assunti con il lockdown, una delle misure più severe e controverse.
Il provvedimento prevede che tutti i datori di lavoro hanno il potere di fissare unilateralmente un «quadro orario» di ventiquattro mesi per ciascun dipendente e l’azienda può indicare quante ore l’addetto dovrà assicurare nei due anni a venire.
Cosicché, se la produzione dovesse rallentare a causa di Covid-19, il lavoratore recupererebbe tutte le ore perse quando i ritmi produttivi ritorneranno ad essere quelli di sempre. E se il dipendente decide di lasciare l’azienda prima di aver completato il suo «quadro orario», sarà costretto a versare all’azienda l’equivalente del salario che avrebbe ricevuto fino alla fine del suo «quadro».
In tal modo se un lavoratore intende lasciare dopo aver coperto solo dodici mesi del suo programma dovrà versare un anno di paga futura all’ex datore di lavoro. Una sorta di buonuscita al contrario o meglio ancora una sorta di servitù del debito a carico dei lavoratori che per liberarsi dagli obblighi devono pagare.
Il contesto economico ungherese è difficile e a conferma di ciò, poco prima della pandemia, la Bmw aveva annunciato un congelamento del suo progetto di costruire una nuova fabbrica a Debrecen nell’Ungheria orientale, che doveva produrre 150 mila auto all’anno.
Il governo di Orbán aveva previsto un sussidio all’iniziativa con 34,4 milioni di euro, forti sgravi fiscali offerti alla casa tedesca, oltre alla realizzazione di varie infrastrutture attorno all’impianto per altri 300 milioni di euro. Orban era contento anche perché il contratto per lo sviluppo dell’area assegnata a Bmw era andato a Lőrinc Mészáros, che è un amico d’infanzia del premier stesso.
Guarda caso, appena il governo vara il decreto sul «quadro orario», la Bmw decide di andare avanti comunque con lo sviluppo dell’impianto di Debrecen. Le norme sulla buonuscita del dipendente hanno l’obiettivo di vincolare la forza lavoro e bloccare la mobilità.
L’Ungheria ha subito un’emigrazione di oltre mezzo milione di persone (5% della popolazione) e il rapido ricambio della manodopera in fabbrica è diventato il maggior problema degli investitori esteri. Vi è una altra legge varata dal governo di Orbán nel dicembre nel 2018 che viola i diritti del lavoro e prevede straordinari obbligatori per due ore al giorno, in media, che sono saldabili dall’azienda solo tre anni più tardi e anche in questo caso il lavoratore perde il diritto ai compensi se decide di lasciare l’azienda prima di essere stato pagato per gli straordinari.
Orbán è assai determinato nell’attrarre e mantenere in Ungheria i produttori di auto tedeschi con enormi sgravi fiscali e condizioni draconiane sul lavoro poiché le loro fabbriche e il loro indotto pesano per un quarto dell’export ungherese e per un decimo del fatturato del Paese.
Poi, indotto e impianti di proprietà rappresentano il 7% dell’occupazione ungherese. C’è un forte interesse personale, poiché appalti per i siti dei loro impianti vanno regolarmente a familiari e amici dello stesso premier. Solo nel 2019 il governo ha versato alle case tedesche sussidi per 122 milioni e ha preso la difesa a Bruxelles dopo lo scandalo per i motori diesel inquinanti della Volkswagen che sono in gran parte prodotti nell’impianto Audi di Győr, in Ungheria occidentale.
La Commissione europea non ancora aperto una procedura d’infrazione su alcune delle norme sul lavoro di Orbán perché la «legge di schiavitù numero uno», che fissa dieci ore di straordinario obbligatorio alla settimana, è in violazione evidente della direttiva europea 88 del 2003 sugli orari di lavoro.
D’altronde, sempre l’Ungheria, è il principale committente dell’industria tedesca degli armamenti, con contratti stipulati quando il ministro della Difesa di Berlino era l’attuale presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Nel 2019 l’Ungheria detiene quasi un quarto dell’export di armi dalla Germania, con ordini per 1,77 miliardi di euro.
Nel campo del lavoro altre norme sono in vigore dal primo novembre con una nuova legge che privatizza i contratti di lavoro di 20 mila dipendenti pubblici nel settore culturale (addetti di musei, biblioteche, archivi o istituti di studi) e cancella anche in questo comparto qualunque accordo collettivo.
Adesso gli ex dipendenti statali possono essere licenziati su due piedi e sono legati al governo da un contratto individuale e lo stesso da gennaio vale per i dipendenti della sanità. E il ministro degli Esteri, Péter Szijjártó, ha persino minacciato pubblicamente di licenziare i dipendenti che dovessero lavorare da casa durante la pandemia.
«L’obiettivo di Orbán è risparmiare soldi pubblici e stroncare qualunque opposizione sui posti di lavoro», afferma Luca Visentini. «Senza accordi collettivi, tutti licenziabili in un batter d’occhio, gli operai e i dipendenti pubblici non si possono più permettere di protestare e scioperare» conclude Visentini.