Potremmo dire che, come nelle migliori fiabe che si rispettano, “tutto è bene quel finisce bene”; le famiglie mazaresi e tunisine riabbracceranno i propri cari dopo un centinaio di giorni di prigionia in un reparto militare nel porto di Benghazi perché accusati di pesca di frodo ed altri reati.
Il Governo alla fine ha ottenuto la loro liberazione, e si sono scomodati persino il presidente del consiglio ed il ministro degli esteri per recuperare sani e salvi i nostri connazionali, con tanto di passerella e onori militari in una caserma ed un rapido colloquio con il Maresciallo Haftar.
Sin qui appare un normale misunderstanding nella complessa vicenda della pesca marittima in quel lago comune che é il nostro Mediterraneo.
La verità e le questioni sono drammaticamente altre e, sebbene l’esito finale di questa vicenda non dovrebbe lasciare spazio a futili polemiche politiche, é bene comprendere che cosa si sia celato dietro questa vicenda banale in sé per sé che ne nascondeva e copriva altre.
Innanzitutto c’è un problema di legittimità del Diritto Internazionale della navigazione che dovrebbe essere fatto rispettare da paesi sovrani che ne riconoscono la supremazia. Ma lo Stato che deteneva i nostri connazionali non esiste, non gode di alcuna legittimità, é un frammento ribelle di quel confuso puzzle che si é determinato dopo la caduta di Gheddafi ragione per la quale non vi poteva essere una ragionevole reciprocità ed un contenzioso da risolversi come accade ordinariamente fra Nazioni in cui prevale il buonsenso ordinato dal principio del “buon vicinato”.
I nostri connazionali di fatto sono stati rapiti e trattenuti da una forza armata e mai trasferiti sotto il controllo della Giustizia, e il Maresciallo Haftar, il militare protetto dagli americani e dai francesi, ha utilizzato come arma di pressione per piegare la posizione italiana di essere colpevolmente troppo amica di Tripoli ovvero del Governo riconosciuto dalle autorità internazionali e dalle Nazioni Unite.
A peggiorare il quadro si è presentata una vicenda pregressa che riguardava l’arresto di quattro benghazini accusati di traffico illegale e di omicidio colposo nella vicenda che vide perire nel mare comune 126 migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana; verso due di loro essendo sportivi e molto popolari a Benghazi l’opinione pubblica si é mobilitata invocando la loro innocenza e una richiesta di soluzione “simmetrica” di rilascio con i nostri pescatori.
Da qui, la difficile condizione nelle quali i nostri servizi di sicurezza si sono visti costretti a negoziare. Alla fine la questione si é risolta e si risolverà esattamente nel modo con la quale i libici intendevano risolverla. Con il graduale rilascio anche dei nostri “prigionieri” che sconteranno la pena a casa loro una volta incardinato l’iter giudiziario che è ancora alle prime battute.
Ora: tutto é bene quel che finisce bene, avendo optato una soluzione politica al caso non era opportuno tutta questa scena, semmai sarebbe stato meglio coinvolgere anche altre azioni confinanti, come la Tunisia, impostare una volta per tutte una virtuosa e necessaria politica dell’immigrazione e per la pesca visto che il problema si può ripresentare esattamente nelle stesse forme e sostanza.
Senza una politica di pace, sicurezza, cooperazione, il mediterraneo diventa teatro quotidiano di scorribande piratesche che si possono risolvere magari con la scusa del Natale, ma sottopongono il nostro paese all’evidente accusa di essere fragile e di non sapersi far rispettare anche da milizie armate che occupano, senza legittimità, pro/tempore importanti territori.
Non dimenticando che se noi abbiamo bisogno della Libia e del suo petrolio, anche la Libia ha bisogno ed avrà bisogno di noi e non può permettersi più ricatti di questa natura che tentano di umiliare l’Italia.