Non aveva ancora compiuto 25 anni Cosimo Cristina quando venne “suicidato” e la sua fine è rimasta ancora avvolta dal mistero anche se alla luce di quel che è successo appare sin tropo chiaro che si è trattato di un delitto di mafia rimasto impunito.
Cosimo viveva a Termine Imerese, figlio di un ferroviere, aveva maturato sin da piccolo la passione innata per il giornalismo iniziando la sua attività all’età di vent’anni.
Assieme all’amico e collega Giovanni Cappuzzo, fondò e diresse il periodico “Prospettive Siciliane”.
Si distinse immediatamente per la sua bravura professionale e dal 1959 collaborò anche con diversi giornali tra cui L’Ora di Palermo, Il Giorno di Milano, il Messaggero di Roma e il Gazzettino di Venezia nonché l’Agenzia ANSA.
Il giovane seguiva con entusiasmo e con curiosità la sua mutevole realtà sociale, i temi di attualità del territorio e si specializzò soprattutto nella descrizione dettagliata di vicende di cronaca nera e di fatti di mafia, gettando una luce sulle ragnatele di interessi illeciti che si muovevano tra Termini Imerese e Caccamo.
Immediatamente la testata cominciò a pubblicare denunce, ad occuparsi di inchieste, indagando su omicidi di mafia facendo nomi e cognomi di boss.
Iniziarono le minacce e le intimidazioni nei suoi confronti, però Cosimo era un indomito, non temeva nulla e non si fermò, anche perché nutriva la sana ambizione di divenire un grande e affermato giornalista, oltre ad essere mosso da una sete naturale di giustizia.
Nei suoi articoli affrontò gli intrecci tra mafia e politica nel territorio delle Madonie, indirizzando la sua attenzione sui tanti fatti di cronaca in modo da fare emergere la verità delle cose e di frantumare il muro d’omertà.
Si caratterizzò come un moderno e impareggiabile cronista, libero e senza padroni, profondamente onesto, e lui stesso si definì: “Un giornalista senza peli sulla lingua”.
Proprio in quegli anni la mafia consolidò il suo potere ed entrò in tanti settori dell’economia locale. Naturalmente Cosimo comprese e colse questi movimenti e azioni delle cosche decidendo di non tenerseli per sé, bensì decise di narrarli sul giornale.
Affrontò numerose beghe legali per questi articoli di cronaca su inchieste che non guardavano in faccia a nessuno e, nello stesso tempo, le cosche mafiose cominciarono a metterlo nel mirino emettendo una sentenza di morte da eseguire.
La mattina del 3 maggio del 1960 Cosimo uscì di casa verso le 11.00, era di ottimo umore, vestito con la sua consueta eleganza, col solito cravattino, come sempre assai curato ed elegante.
Quando la sera non rientrò a casa il fatto non destò ansia e preoccupazione poiché i genitori e le tre sorelle, erano abituati al suo modo di vivere, altre volte succedeva che Cosimo tornasse a casa molto tardi e poi il giorno dopo raccontasse i retroscena e i particolari di un’inchiesta alla quale stava lavorando.
Peraltro aveva lasciato detto in famiglia che si stava occupando di una notizia bomba che sarebbe uscita sul giornale “L’Ora” di Palermo.
Questa volta però Cosimo non rientrò nella sua abitazione e il giorno dopo si lanciò l’allarme da parte dei familiari.
Iniziarono le ricerche da parte del padre Luigi, della fidanzata, degli amici e dei carabinieri. Alle 15. 35 del 5 maggio il suo corpo dilaniato e con il cranico sfondato venne ritrovato al centro dei binari ferroviari, a pancia in su, nella galleria Fossola, vicino Termini Imerese.
Vengono rinvenuti il portafoglio, un mazzo di chiavi e un portasigarette, nonché in una tasca si trovava una schedina del totocalcio appena giocata e un bigliettino di commiato alla vita per il suo caro amico Giovanni Cappuzzo.
Vi erano molte cose che non convincevano affatto e tutto sembrava apparire come se si fosse suicidato.
Infatti gli inquirenti conclusero le indagini dichiarando che Cosimo si era suicidato e il caso venne subito archiviato. Tuttavia vi erano molte circostanza strane e singolari in questo “suicidio” e immediatamente sollevarono interrogativi furono prima i parenti, poi i colleghi de “L’Ora” di Palermo, Anche Mario Francese, giornalista successivamente vittima di mafia si occupò del caso e, comunque, si dovette attendere ben sei anni perché il caso venisse riaperto.
Infatti, il 16 aprile del 1966, durante una riunione tra i questori della Sicilia, si decise di dare vita al “Centro regionale di coordinamento per la lotta alla criminalità organizzata” che intendeva indagare sui tantissimi delitti rimasti impuniti in quegli anni.
Fu affidato il coordinamento al vice-questore di Palermo, Angelo Mangano, che si mise subito al lavoro e, in poco più di due mesi di indagini, consegnò un documento investigativo di grande valore probatorio “Dossier del nucleo Mangano sui misteri delle Madonie” facendo riaprire il caso “Cristina”.
Fu sentito più volte dagli inquirenti il professor Giovanni Cappuzzo, l’amico d’infanzia di Cosimo che riferì di essere stato avvicinato da Accursio Mendola, figlio adottivo del boss Emanuele Nobile, il quale gli consigliò di stare molto attento lasciando al suo destino Cosimo, già condannato a morte da un “tribunale di mafia” e lo stesso Mendola confermò questo episodio.
Il funzionario di polizia si convinse che a uccidere Cosimo siano state le cosche mafiose termitane, con l’assenso della famiglia di Caccamo, che tenevano sotto controllo la zona.
Secondo la sua ricostruzione, Cosimo fu colpito da una spranga alla testa successivamente gettato sui binari della galleria per simulare il suicidio.
Quindi il 12 luglio 1966, il corpo di Cosimo sarà riesumato per l’autopsia. Tuttavia nonostante gli importanti elementi raccolti, la relazione depositata dai periti Marco Stassi e Ideale Del Carpio, contrastò le tesi del nucleo di coordinamento diretto da Mangano, stabilendo che si era trattato di un chiaro caso di suicidio escludendo ancora una volta la tesi dell’omicidio.
Il caso venne perciò nuovamente archiviato come suicidio. Soltanto nel 1999 un giornalista catanese, Luciano Mirone tirò fuori questo rapporto esplosivo proprio del 1966, redatto dal valoroso Vice Questore Mangano in cui si sosteneva che il cronista era stato ucciso in un luogo e deposto sui binari per simulare il suicidio.
Il grande poliziotto noto in tutta Italia per l’arrestò di Luciano Liggio, accusò una serie di personaggi locali, politici e mafiosi di avere ucciso il povero giovane.
Mirone mise in risalto le contraddizioni del referto autoptico, che venne sottoposto all’attenzione di Vincenzo Milana, professore di Medicina legale dell’Università di Catania.
Il giornalista organizzò persino una raccolta di firme con la quale si chiedeva alla Procura di Palermo di riaprire l’inchiesta. Purtroppo, questo impegno profuso e la documentazione prodotta, non portò a nessun risultato e l’appello rimase inascoltato.
Questo caso di Cosimo Cristina somiglia in modo impressionante a quello di Peppino Impastato, con l’unica differenza che il giovane di Cinisi ha avuto giustizia con la condanna del boss mafioso Tano Badalamenti, mentre il brillante giornalista di Termini Imerese ha ottenuto solo una via dedicata nella città che gli diede i natali.