Di Eugenio Magnoli
La Mafia in Sicilia è sempre stata un cancro da debellare e in pochi la combatterono come Accurso Miraglia. Nato da Nicolò e Maria Rosa Venturini, figlia naturale della duchessa Tagliavia, Miraglia dimostrò subito tenacia e caparbietà.
Diplomatosi con il massimo dei voti iniziò a lavorare presso il Credito Italiano di Catania che in seguito lo trasferì a Milano, lì conobbe molte delle personalità influenti della politica e della cultura italiana di quel periodo.
Infatti, nella capitale meneghina, subì l’influenza del pensiero filosofico di Michail Bakunin, filosofo e rivoluzionario russo, tanto da iscriversi al gruppo anarchico di Porta Ticinese. Con loro iniziò l’attività politico-sociale unendosi con la classe operaia che lottava per una vita più dignitosa nelle fabbriche.
Fu licenziato dalla banca per “contrasti di natura politica” perché i dirigenti non digerivano l’attività di Miraglia per il sociale.
Le sue lotte a fianco degli operai e la continua ricerca di giustizia ed uguaglianza mettevano in imbarazzo la sua dirigenza e così Miraglia rientrò a Sciacca e iniziò la sua vita professionale nel suo paese natale.
Era un uomo dedito al lavoro ma soprattutto allo studio e all’attività sociale e fu proprio questa sua forte sensibilità ed empatia che diede fastidio ai gabellotti mafiosi.
Entrò in politica e partecipò alla costruzione del Pci e ne fu anche dirigente.
Miraglia creò la prima Camera del Lavoro siciliana, nata appunto a Sciacca. La Camera era organizzata in tal modo da poter esprimere al massimo lo spirito comunitario e i diritti dei lavoratori.
Miraglia, insieme a Domenico Cuffaro, rappresentò il risveglio del popolo siciliano e le loro lotte ebbero eco in tutta la provincia se non oltre.
Tuttavia il 4 gennaio del 1947 Miraglia finì vittima di un agguato mafioso ideato da Bartolomeo Oliva, Pellegrino Marciante e Calogero Curreri che, arrestati in un secondo momento, diedero i nomi dei mandanti: il cavalier Rossi, il dottor Gaetano Parlapiano Vella, il barone Francesco Pasciuta, tre dei più conosciuti possidenti terrieri di Sciacca e Ribera.
Infine anche i mafiosi Carmelo Di Stefano e Francesco Segreto, ritenuti i capi delle cosche di Favara e Sciacca, vennero arrestati per l’omicidio.
Alla fine della fiera, però, la giustizia in Italia vale solo per gli onesti e a pagarne le spese fu solo il povero Accursio Miraglia poiché, davanti al Procuratore di Palermo, Curreri e Marciante ritrattarono le loro confessioni e accusarono le forze dell’ordine di averle estorte con violenze e sevizie.
Infine, al contrario delle storie a lieto fine, tutti gli accusati furono prosciolti in istruttoria per insufficienza di prove e, di conseguenza, scarcerati mentre il commissario Zingone, il vice-commissario Tandoy, il maresciallo Gagliano ed altri agenti che furono incriminati dalla Procura di Agrigento per torture e sevizie vennero prosciolti “per non aver commesso il fatto“.
«Io non impreco e non chiedo alcuna punizione. Io che ho tanto amato la vita, chiedo ad essa di vedere pentiti coloro che ci hanno fatto del male»
(A. Miraglia)
La sua eredità è il suo insegnamento possono ancora essere un faro per la giustizia e la legalità in questo Paese. Schiacciare la mafia, l’illegalità e la corruzione è possibile solo cambiando la nostra mentalità, Avanti Italia.
«La forza dell’uomo civile è la legge, la forza del bruto e del mafioso è la violenza fisica e morale. Noi, malgrado quello che si sente dire di alcuni magistrati, abbiamo ancora fiducia nella sola legge degli uomini civili, che alla fine trionfa nello spirito dell’uomo che è capace di sentirne il “Bene”. Temiamo, invece la violenza perché offende la nostra maniera di vedere e concepire le cose. Lungi dalla perfezione e dall’infallibilità, siamo però in buona fede, e non cerchiamo altro che la possibilità di ripresa della nostra gente e in altre parole di dare il nostro piccolo contributo all’emancipazione e alla dignità dell’uomo. È solo questo il filo conduttore che ci ispira e ci porta nel rischio. Non è colpa nostra se qualcuno non lo arriva a capire: non arrivi a capire, cioè, che ci sia, ogni tanto, qualcuno disposto anche a morire per gli altri, per la verità per la giustizia. Attento però a questo qualcuno che da sprovveduto e morto non diventi un simbolo molto ma molto più grande e pericoloso.»