Un fatto unico nella storia della Chiesa. Il giudice Rosario Livatino, ucciso dalla “Stidda”, è stato proclamato beato nella cattedrale di Agrigento, diventando così il primo magistrato beato nella storia della Chiesa cattolica.
E’ stata esposta sull’altare come reliquia la camicia insanguinata che indossava il giorno del suo barbaro omicidio poiché secondo le regole canoniche non è stata fatta la ricognizione del corpo che si trova sepolto nella cappella di famiglia del suo paese.
Rosario Livatino venne ucciso dalla “Stidda” agrigentina il 21 settembre 1990 quando aveva solo 38 anni ed è stato beatificato per volontà di Papa Francesco nella cattedrale di Agrigento dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione delle cause dei santi. Il Vaticano ha riconosciuto che il giudice è stato martirio in odium fidei ed è stata scelta la data del 9 maggio perché in quel giorno proprio nel maggio 1993, San Giovanni Paolo II pronunciò nella valle dei templi di Agrigento, affermò con toni vibranti una dura reprimenda contro la mafia: “Dio ha detto una volta: ‘Non uccidere’. Non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio!”.
E proseguì: “Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo, crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via verità e vita, lo dico ai responsabili, lo dico ai responsabili: convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”.
Sono frasi e parole che restano scolpite nella memoria e che segnarono la svolta definitiva della Chiesa nei confronti della mafia dopo decenni di silenzi e omissioni. Anche in tempi recenti nel 2014 Papa Francesco ha preso posizione a Cassano allo Jonio, in Calabria: “Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!”.
Coincide questa data anche con il giorno dell’uccisione sempre per mano mafiosa di Peppino Impastato che avvenne nel 1978 e il giornalista trentenne a Cinisi, in provincia di Palermo denunciava le attività di Cosa nostra.
In questo momento solenne occasione della beatificazione di Livatino, il cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della Cei ha detto che “la malavita organizzata, la possiamo chiamare mafia, camorra, stidda, non è una criminalità comune ma è un’organizzazione feroce e, al tempo stesso, una forma di ateismo che si colora di tinte neopagane e di blasfeme citazioni cristiane. La malavita è inequivocabilmente fonte di morte: morte della società, morte del territorio, morte dell’anima delle persone. Le organizzazioni criminali per realizzare i loro progetti creano un clima di paura che sfrutta la miseria e la disoccupazione, la disperazione sociale e l’assenza della certezza del diritto. Proprio per questo è assolutamente necessaria la presenza dello Stato. Una presenza forte, autorevole e soprattutto educativa. Come quella di Rosario Livatino. Ho letto alcune cronache dei giornali del 1990 che raccontano la morte del giudice ragazzino. Egli viene definito come ‘un giovane e minuto magistrato di 38 anni’ che da ‘dieci anni faceva il suo dovere’: in definitiva era ‘un giudice incorruttibile’”.
Il cardinale ha proseguito dicendo che “Livatino è stato un appassionato difensore della legalità e della libertà di questo Paese. Un autentico rappresentante delle istituzioni che è riuscito a incarnare la certezza del diritto e anche la cultura morale dell’Italia profonda: di quell’Italia che non si arrende alle ingiustizie e alle prevaricazioni, e che non cede agli ignavi e a coloro che si adeguano allo status quo: anche quando lo status quo è rappresentato dalla mafia”. E ha concluso: “Vorrei riassumere l’eredità di Livatino con la stessa frase che ho utilizzato per ricordare don Pino Puglisi: con la mafia non si convive! Fra la mafia e il Vangelo non può esserci alcuna convivenza o tantomeno connivenza. Non può esserci alcun contatto né alcun deprecabile inchino”.
Era presente alla funzione che beatifica Livatino anche il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, che, nella prefazione al volume “Rosario Livatino. Il giudice giusto (San Paolo)” del caporedattore di Avvenire, Toni Mira, ha scritto queste parole: “Livatino si occupava di ecoreati ben prima che questi venissero riconosciuti come tali dall’ordinamento. Aveva un occhio attento alla natura, nella quale vedeva l’armonia del creato e l’amore del creatore. Non solo. È stato anche fra i primi magistrati in Italia a dare attuazione alle norme sul sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Capiva che da lì sarebbe passato l’indebolimento delle cosche, la loro perdita di controllo e anche di prestigio sociale sui territori”.
Rosario Livatino soleva dire spesso: “Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. E spiegava: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.
Un giudice intriso di altissima spiritualità e umanità, nello stesso tempo preparato, concreto e rigoroso che ha sacrificato la sua vita consapevole dei rischi che correva e rinunciando alla scorta proprio perché non voleva mettere a repentaglio la vita di altri esseri umani. Prima di essere giustiziato si rivolse ai suoi carnefici con parole struggenti: “Picciotti, cosa vi ho fatto?”.