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Tunisia dieci anni dopo : quel che resta della rivoluzione dei gelsomini

by Bobo Craxi

La Tunisia dieci anni dopo è una nazione smarrita, l’empito rivoluzionario e le speranze che esso aveva suscitato ha lasciato spazio alle incertezze generate dalle crisi economiche e politiche. Non è un bilancio facile quello che può essere fatto in nessuna nazione al Mondo in tempo di pandemia, tanto più in un paese piccolo e fragile esposto alle crisi nordafricane e resosi vulnerabile dalla svolta democratica che ha prodotto instabilità politica come in molte nazioni arabe.

La lunga transizione democratica avviata dopo la caduta e la conseguente fuga del Presidente Ben Ali vede oggi una popolazione stremata che considera al 60% che la rivoluzione dei gelsomini che aveva risvegliato sentimenti di fiducia e speranza è fallita, e ben l’80 % considera che il collasso socio-economico a cui stanno assistendo è proprio il frutto più avvelenato del cambiamento auspicato ed inceppatosi in questi lunghi dieci anni di tenebrosa transizione.

L’illusione che generò anche in occidente è che la Rivoluzione Tunisina fosse la prima rivoluzione “post-islamista” della storia dei paesi arabi, in realtà quell’entusiasmo giovanile e delle classi borghesi, che avevano salutato la fine del potere in definitiva poliziesco di Ben Ali, è stato ben presto confiscato dalla capacità ed egemonica dei movimenti politici di orientamento islamico che hanno determinato una severa rottura con i principi ed i valori di modernità che ha saputo interpretare la Tunisia sin dalla sua indipendenza.

La laicità dello Stato e la sua capacità di dialogo essenziale con le altre rive del mediterraneo, nonché la capacità di sintetizzare la tradizione con gli elementi di modernità, gli “atouts” più importanti della giovane nazione tunisina, sono stati a tratti oscurati da una ventata di conservatorismo prodotta dalla presenza massiccia di forze di ispirazione teocratica approdate nel gioco parlamentare e, quel che è peggio, di famigerati gruppuscoli che hanno fomentato il radicalismo religioso in patria ed anche fuori dove si sono resi protagonisti nelle crisi che la rivoluzione tunisina ha ispirato a partire da quella siriana, ancora oggi irrisolta.

E’ proprio lo storico Ibn Khaldoum che fece riferimento, ormai sei secoli orsono, al lungo “ ciclo di disordine” che sarebbe intervenuto con l’avvento delle masse dell’entroterra nelle città, l’islamismo politico come elemento di riscatto delle masse diseredate è, in altre forme, lo stesso populismo che si è affermato in occidente, generando nel caso tunisino un conflitto a bassa intensità per un primo periodo ed oggi una condizione di semi-paralisi politica avendo i movimenti islamici, nonostante il decrescente peso elettorale, il potere di blocco sulla formazione dei Governi ed avendo la possibilità di determinare gli equilibri politici da qui al futuro.

E il mondo islamico inoltre si sta lacerando in due fazioni, non soltanto facendo riaffiorare per la prima volta in Tunisia una divisione mai esistita fra le tendenze dell’islamismo arabo (sunnita-sciita) ma addirittura producendo una “ tentazione populista” così come descritta in modo eloquente dallo storico Hamadi Redissi.

Una forma di “terza cultura” che mescola diversi elementi: un conservatorismo religioso ostile all’abolizione della pena di morte, all’omosessualità, alla parità di genere unito ad un pan-nazionalismo di ispirazione nasseriana di ritorno ed una furia giacobina demolitrice dello Stato in quanto tale.

Se fossero alcuni gruppuscoli minoritari ad esprimere questo insieme di valori non sarebbe preoccupante, il problema è che si è installato ai vertici dello Stato quest’onda populistica ed a essa una parte del popolo chiede di regolare definitivamente la questione della democrazia mettendo fine all’esperienza parlamentare incarnando direttamente dal palazzo presidenziale questo spirito di rivincita popolare.

La verità è che non esiste in Tunisia una forza conservatrice e parassitaria che si oppone al cambiamento, la Società Civile più evoluta si è opposta all’idea di instaurare una teocrazia negli anni successivi alla Rivoluzione ed ha vinto, grazie in particolare alle donne ed ai sindacati progressisti, la propria battaglia, ora la crisi economica morde tutte le confessioni, la Libia non è più una nazione e i contraccolpi di quella crisi si fanno sentire sul piano degli interscambi, del rientro imponente della forza-lavoro tunisina (più di 80.000 unità) e sul piano della sicurezza.

La Crisi economica europea già presente all’epoca della Rivoluzione si è accentuata con la pandemia, niente più produzione ed investimenti dal vecchio continente e soprattutto fine temporanea della presenza turistica, prima spaventata dai rischi del terrorismo interno ed oggi dall’impossibilità di muoversi dal proprio paese.

Non poteva esistere per questa ragione una prospettiva bene ordinata della transizione tunisina che potesse padroneggiare queste congiunture e quindi la tendenza è diventata oggi quella di assegnare tutta la ragione dei mali di cui soffre la nostra giovane ed amica Tunisia alle illusioni svanite della sua Rivoluzione.

Eppure, non si può certo imputare al popolo tunisino la colpa di avere provato ad emanciparsi da una forma di Stato, ma a quel modello di partito unico e di democratura che, per troppo tempo, ha rappresentato l’unico orizzonte politico che dall’indipendenza francese essi avevano conosciuto.

Indietro in ogni caso non si può tornare, ed alle nuove generazioni resta il compito di non veder fallite le proprie speranze purché esse vengano sorrette ed aiutate ad immaginare e preparare un futuro migliore. Il neo-populismo che sta morendo in occidente tuttavia non può rivelarsi una strada percorribile.

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