Matteo Matteotti ha seguito le orme del padre Giacomo, vittima e martire nel nascente regime fascista, maturando nel tempo l’idea di svolgere il giornalista e diventando, nel dopoguerra, un politico di primo piano. Quando il padre fu assassinato aveva soltanto tre anni e crebbe con questa dolorosa assenza che ha segnato profondamente la sua esistenza. Riuscì a completare gli studi in Scienze politiche.
Dopo l’8 settembre 1943, Matteo Matteotti, svolse un intensa attività politica e viene nominato Commissario della brigata partigiana comandata da Eugenio Colorni. Diventò quindi anche giornalista professionista con la nomina di direttore responsabile dal 1944 di Rivoluzione Socialista che fu il settimanale della Federazione Giovanile Socialista Italiana.
Si impegnò anche come editore e collaboratore di Tempi moderni, che fu la rivista diretta da Fabrizio Onofri. Collaborò attivamente anche con Critica Sociale, Tempo presente e Ragionamenti. Fece parte dell’Assemblea Costituente ed stato deputato per otto legislature nonché Presidente dell’Unione Internazionale della Gioventù Socialista dal 1945 al 1946.
Fu uno dei protagonisti più celebri della scissione di Palazzo Barberini del 1947. Divenne successivamente segretario del PSDI dal 1954 al 1957, mentre nel 1959 rientrò al PSI, per poi ritornare nel PSDI nel 1969. Ebbe importanti incarichi di governo e infatti fu nominato ministro del Turismo e dello spettacolo nel governo Colombo dal 1970 al 1972, e ministro del Commercio estero dal 1972 al 1974 (nel secondo governo Andreotti e nel quarto e quinto governo Rumor).
Dal 1985 al 1988 è stato direttore politico de L’Umanità, organo ufficiale del PSDI. Ricoprendo la carica di parlamentare, Matteotti, fu affiancato da Gianpiero Orsello in qualità di direttore responsabile. Poi nel 1998 confluì insieme al PSDI nei Socialisti Democratici Italiani, cui rimase iscritto fino alla morte nel 2000.
Matteo Matteotti, fu anche presidente generale del Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani (CNGEI). Sulla ricostruzione del delitto del padre, Matteo Matteotti, cercò sempre di approfondire risvolti di verità non emersi e sostenne sempre che vi era una precisa intenzione dei killer fascisti di uccidere il padre. A sapere che Matteotti doveva essere ucciso, secondo il figlio Matteo, erano Amerigo Dumini e Amleto Poveromo; mentre ad assassinarlo furono i colpi vibrati da Poveromo stesso, il quale, dopo aver chiesto a Dumini che guidava l’auto, di uscire da Roma, seppellì in fretta e furia il cadavere del deputato socialista nel bosco della Quartarella anche con l’aiuto di altri complici.
Il seppellimento fu deciso e attuato in quel modo proprio perché in caso d’arresto l’assassinio doveva apparire preterintenzionale. Inoltre, Matteo Matteotti, ha sempre sostenuto le accuse secondo cui Vittorio Emanuele III fosse mandante dell’omicidio del padre, essendo divenuto il re azionista della compagnia petrolifera statunitense Sinclair Oil Corporation, a titolo di tangente, per non permettere a un ente petrolifero italiano di intraprendere trivellazioni nel deserto libico.
Giacomo Matteotti avrebbe avuto le prove esplosive del coinvolgimento di gerarchi e dello stesso sovrano ed era giunto alla decisione di divulgarli. Parrebbe anche che al momento dell’omicidio, il deputato socialista avrebbe avuto con sé una busta con dentro i documenti sui rapporti tra il re e la Sinclair.