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Il prezzo della Crisi

by Bobo Craxi

Il prezzo della crisi politica ed istituzionale del paese questa volta potrebbe non essere pagato in prima persona dai cittadini, già lo hanno fatto.

Quasi un anno fa entrammo nella fase più drammatica della Storia del nostro paese, la pandemia mondiale ha sensibilmente modificato la vita di milioni di persone ed ha mandato in crisi i sistemi consolidati; il problema di reinterpretare il tempo nuovo si pone al di là delle crisi endogene dei singoli Stati ed è qualche cosa sulla quale si interrogano gli intellettuali e i protagonisti del nostro tempo.

Per questa ragione la capitolazione della maggioranza politica che si era andata costituendo dopo la frattura della pericolosa “liaison” dei populisti nostrani appare più che altro la cronaca di una morte annunciata.

Quando sono arrivati i nodi di fondo degli indirizzi politici e strategici da assumere per il futuro inevitabilmente le crisi, soggiaciute da tempo, hanno finito per esplodere.

Poi naturalmente ci sono i protagonisti con la loro sete di avventura e di potere, ma sullo sfondo riemergono le questioni inevase non della ultima legislatura ma di un trentennio di tenebrosa ed interminabile transizione politica.

Non è un caso che l’ultimo scoglio sul quale si sono infrante le speranze del Ministero Conte, che invano aveva cercato di sopravvivere con il lavoro della compravendita parlamentare, riguardano proprio quella Giustizia dalla quale tutta la crisi italiana era partita, la magistratura che aveva inghiottito cinque forze democratiche e che continua ad esercitare un’influenza determinante sulla vita politica del paese era riuscita finalmente ad ottenere un ventriloquo delle sue posizioni a Via Arenula, la difesa di Bonafede, del “fine processo mai”, assieme a tante impuntature di Giuseppe Conte, convinto della sua indispensabilità hanno finito per cedere ed a non trovare più nessuna ragione di coesistenza fra forze politiche chiaramente disomogenee.

Il populismo non riesce a reggere a lungo alla prova di Governo, la frana di Trump da questo punto di vista è stata significativa, e la forza delle cose si impone.

L’Europa, che è stata in altre epoche matrigna ed ha determinato altre crisi politiche nel nostro paese a questo punto è diventata un elemento centrale, un’opzione alla quale non è possibile rinunciare ed un ombrello, questo sì, che ha messo al riparo l’Italia dalla pericolosissima china verso la quale sembrava essere destinata.

Escono naturalmente malconce le forze politiche che si attardavano nella difesa di un quadro politico che non c’era più, che aveva ceduto la propria sovranità al populismo sino da esserne reso ostaggio. Oggi la condizione delle forze democratiche di riunirsi attorno a progetti, programmi, ideali compatibili con l’Europa del XXI Secolo obbligherà tutti quanti a riqualificare l’azione e a riconquistare la fiducia popolare senza l’alibi dell’emergenza pandemica e delle parole d’ordine che hanno finito per anestetizzare il parlamento ed il dibattito pubblico per mesi.

Un compito in più per la sinistra; da un lato, la responsabilità nazionale e, dall’altro, anche consapevolezza che le opzioni socialdemocratiche in crisi in tutta Europa (fatto salvo la penisola Iberica e lusitana) devono ricostruire un patto di azione e solidarietà con vaste aree della popolazione sottraendo alla destra, che si è fatta aggressiva e popolare, il compito di rappresentare ceti stremati ed indeboliti dalla crisi.

Una sinistra meno establishment e più legata alla capacità di interpretare e guidare verso soluzioni riformiste e moderni pezzi determinanti della popolazione a partire da quella giovanile.

Oggi in Germania è in atto una “rivoluzione verde” sta emergendo una forza ambientalista e progressista che rischia di soppiantare la vecchia socialdemocrazia, in Italia si è esaurita nella contaminazione con il Governo la spinta di rinnovamento che il movimentismo di Grillo aveva recato alla politica italiana, troppi presupposti anti-sistema al confine della eversione lo avevano animato, e la piroetta che li ha ricollocati in una posizione radicalmente diversa era troppo poco credibile per non essere valutata come puro opportunismo politico.

Il Partito Democratico non ha mai esaurito le sue fasi congressuali, era difficile espellere dal proprio seno il frutto che esso stesso aveva generato. Il Partito “nuovo”, il PD non poteva che ruotare attorno alle sue contraddizioni di fondo generate dal vizio di origine. Renzi è stato un protagonista in ritardo della “terza via” che per anni fu imboccata dagli epigoni del PCI.

Oggi egli ha unito ad una proverbiale destrezza manovriera, un senso della politica che altri non hanno avuto. La vittoria della fase non si tramuterà in un consenso duraturo. Tutto è da fare e tutto è da ricostruire. “Tutto è in questione”, come avrebbe detto Pietro Nenni.

Rifare le istituzioni logorate, applicare coerentemente le politiche economiche del Recovery Plan seguendo ed interpretando gli indirizzi di fondo dell’Unione, completare un piano vaccinale che raggiunga il più largo numero di persone, riorganizzare il rapporto fra Centro e Periferia, Comuni e Regione, Regioni e Stato, L’Italia e l’Europa.

Riorganizzare la vita democratica del paese a partire anche dalle recenti fasi tumultuose che l’hanno animata.
Draghi a differenza da Monti che ha vissuto la sua vita professionale nelle istituzioni democratiche, è un uomo dell’establishment, si ma democratico.

Si professò liberal-socialista ed è già qualcosa di significativo. Spetta a lui di guidare una fase delicata della vita italiana, spetta alle forze politiche, ai cittadini democratici di mobilitare energie per ricostruire il paese, il suo sistema democratico cercando di non pagare prezzi ulteriori.

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