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Il carcere come vendetta

by Maurizio Ciotola

L’art. 27 della Costituzione tratta uno degli argomenti che, senza equivoci, contraddistinguono il grado di civiltà di un Paese, delle sue istituzioni e della Politica che lo governa.

Dopo settantatré anni dalla promulgazione della Costituzione Italiana, l’applicazione dell’art. 27 non trova pieno riscontro nel Paese, per nessuno dei suoi commi, se non nel primo, in parte, e nell’ultimo, ma solo per l’assenza di una guerra.

Assodato che <> come recita il primo comma dell’art. 27, non sembra altrettanto acquisito il secondo comma, in cui è precisato che <>.

Un punto, quest’ultimo, travolto dall’opinione comune, grazie a un irrispettoso atteggiamento dei media, quanto a oltraggiosi teoremi giudiziari che, secondo le esigenze e in diversa misura hanno da sempre costituito l’aspetto culturale, fascista e populista, del nostro Paese, cui una precisa sinistra è sempre stata parte attiva.

Oggi però è nostra cura destare l’attenzione sul terzo comma, che purtroppo nella sua capacità impositiva, costituisce nei fatti poco più che carta straccia.

E cioè <>.

Premesso che, il codice penale non prevede pene in cui i trattamenti sono contrari al senso di umanità, dobbiamo chiederci quanto, nelle istituzioni preposte alla custodia dei detenuti e in quelle di polizia giudiziaria, che arrestano il presunto colpevole, i modus operandi non decadano, calpestando il senso di umanità nei confronti dei detenuti o dei presunti innocenti.

Dobbiamo evidenziare quanto, il sistema mediatico e quello istituzionale “lavorino” nel cercare di offrire una sorta di “compenso”, per le vittime o i suoi congiunti, quando si spingono a richiedere a gran voce condanne esemplari o pene inapplicabili.

Condanne e pene richiamate con un tam tam, attraverso l’eco mediatico di esplicita matrice populista, di stampo giustizialista, cui poche testate giornalistiche si sottraggono.

Noi però, ponendo l’attenzione sulle vittime e i loro familiari, ci chiediamo se vi è un eventuale soggetto istituzionale che agisce, interviene a loro sostegno, per offrire una via d’uscita dal dolore o dal baratro in cui sono scivolati.

Interroghiamoci sul perché viene offerta sul piatto d’argento una vendetta determinata dalla condanna giudiziaria, piuttosto che un sostegno effettivo alle vittime e un recupero del condannato.

Non esistono movimenti di rilievo e azioni sostanziali, il cui supporto psicologico, quanto quello materiale, riescano ad accompagnare le famiglie o le stesse vittime se in vita, in un percorso di metabolizzazione volto al superamento del dolore e del rancore.

Per altro invece, i detenuti in eccesso nelle nostre carceri, raramente percorrono strade di rieducazione, nell’oblio istituzionale di tale diritto, costituzionalmente riconosciuto.

Ancor meno viene mostrata un’attenzione per le donne madri, scaraventate con i loro figli minori nelle stesse carceri a scontare la pena, nell’immobilismo e nell’umiliazione.

Le statistiche mostrano che, la detenzione senza un percorso rieducativo, conduce inevitabilmente, dopo l’uscita dal carcere del detenuto a una sua recidiva.

Diversamente questo non accade mai o quasi mai a coloro che, hanno avuto l’opportunità di svolgere percorsi di rieducazione e formazione di indirizzo al lavoro.

C’è un sibillino atteggiamento di alcuni politici e movimenti, per cui, piuttosto che battersi per l’istituzione dei corsi di rieducazione, spingono verso una detenzione formale, fuori dalle carceri.

Un forma di “detenzione” che, se svolta negli stessi ambienti in cui si sono sviluppate quelle attitudini o costrizioni a delinquere, non consentiranno di evitare la recidiva, una volta scontata la pena.

O ancor peggio, garantiranno un amalgama maggiore per le organizzazioni a delinquere, rafforzando la loro capacità operativa e distruttiva.

Siamo consapevoli dell’inutilità della detenzione nelle celle carcerarie, in cui non sono rispettati gli spazi vitali per il detenuto e soprattutto, dove gli stessi non sono impegnati in una attività di rieducazione e formazione.

Altresì la loro mera liberazione, attraverso amnistie o riduzioni di pena, con cui si pone fine alle condizioni disumane di detenzione, non consentirà la loro reintegrazione.

Dobbiamo stare attenti a non cadere in quella ipocrisia, che ci consente di affermare un ripristino delle condizioni di vivibilità nelle carceri o una riduzione del loro affollamento, ma che non consente di uscire dal ciclo, cui la recidiva conduce quelle stesse persone a rientrare nelle carceri.

Dobbiamo impegnarci e pretendere che le istituzioni applichino l’articolo 27 Cost., non solo per quanto riguarda il comma tre, relativo alla detenzione, ma nella sua interezza.

Perché solo così l’evolvere sociale e culturale del Paese potrà condurci verso una riduzione, se non alla sua eliminazione, degli ambiti malavitosi, che costituiscono una metastasi per qualsiasi popolazione.

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