Di Pier Aldo Ciucchi
Si pone in premessa un imperativo che riguarda i socialisti. L’orgoglio di sentirsi socialista. Se non si avverte questo sentimento non si avverte neppure la necessità di combattere le disuguaglianze, le ingiustizie, le emarginazioni.
Come i primi socialisti, è necessario scrollarsi di dosso la paura e avere fiducia nel futuro e nel progresso per tornare in campo e lottare anche in termini nuovi, aprendosi alla conoscenza, al sapere, al pensiero.
Si può lottare se si è forti di una propria identità e nel mondo globalizzato, a maggior ragione dopo gli sconvolgimenti che si determineranno ulteriormente a determinare in conseguenza di questa crisi pandemica, l’identità del socialismo non può che rifarsi al metodo e alla tradizione del riformismo.
La forza del riformismo nasce dal fatto che nulla nella vita sociale ed economica può restare immobile, che tutto va rimesso in discussione e continuamente modificato e guidato a esiti nuovi e qualitativamente superiori. Il conservatorismo politico, sociale, intellettuale è destinato a scomparire o divenire fenomeno residuale.
All’epoca della conservazione succede l’epoca della “grandi sfide”: nell’economia, nella vita delle nazioni, nei rapporti fra i gruppi sociali e nelle relazioni fra le nazioni, specie con le aree del mondo dove tali processi non sono ancora avviati.
Sono queste le ragioni per cui oggi, le forze politiche si dicono riformiste. E non possono, paradossalmente, che dichiararsi tali. Dall’estrema destra alla sinistra, ogni partito ostenta programmi, comportamenti, intenti dichiaratamente riformisti e rinnovatori. Non potendo più definirsi, né apertamente, né velatamente, rivoluzionaria, non potendo presentarsi come conservatrice, pena l’emarginazione del consenso sociale, ogni forza politica si dichiara tale.
Dal generale contesto del “riformismo diffuso” emergeranno presumibilmente quei soggetti sociali e politici che si mostreranno maggiormente in grado di cimentarsi nelle grandi sfide che la società nazionale e internazionale va proponendo in modo incalzante e che saranno altresì in grado di agire coerentemente a quelle volontà e finalità di rinnovamento che mostrano e dichiarano di voler conseguire e realizzare.
Ma un’identità particolare, un ruolo specifico di avanguardia spetta al riformismo socialista quale portatore di istanze di rinnovamento non solo funzionali e organicistiche dell’impianto economico e istituzionale, ma di sostanziale sviluppo della democrazia sociale e politica, nella società in trasformazione.
In un paese come l’Italia, nel quale il possente sviluppo dell’economia non ha cancellato affatto gli enormi squilibri esistenti, si pongono anzitutto problemi di giustizia ed equità che sono il terreno naturale di iniziativa del riformismo socialista.
E tuttavia, un riformismo circoscritto al piano sociale che ignori clamorosamente gli altri due presupposti basilari del riformismo europeo sia nella versione socialista che in quella liberale ovvero, la difesa dell’autonomia dello Stato da ogni pressione confessionale e il garantismo nella concreta costruzione del giusto processo e della separazione delle carriere dei magistrati, non sarebbe altro che un riformismo sedicente, dimezzato, amputato.
Ci sono buone ragioni per consentire ai socialisti di non abdicare alla loro identità e di avvertire l’esigenza di non ammainare la bandiera del socialismo riformista.
La prima: è pensabile che la ricostruzione del Paese, tramite il Recovery Plan che per realizzarsi deve indiscutibilmente poggiare su un impianto riformista di qualità pena il suo collasso, possa essere realizzata dal Pd per, come si presenta oggi, e dall’attuale Movimento 5 Stelle, sommati insieme, in un asse strategico guidato da Enrico Letta e Giuseppe Conte?
La seconda: si può ritenere verosimile che il Movimento 5 Stelle, ancor che a guida Conte, possa spogliarsi dei suoi profili populisti, antipolitici, antiparlamentari e giustizialisti?
Per come oggi, stanno le cose, appare obiettivamente arduo pensare di poter affermare l’identità del socialismo riformista in siffatto asse strategico. Finirebbe ammutolita, sottopadrone, fino a scomparire; in questo, si dovrebbe far tesoro delle incaute scelte operate ad ogni passaggio elettorale di questo ultimo decennio.
Da un altro lato, si assiste da parte di Bentivogli, Calenda, Bonino e dell’Avanti di Martelli ai quali si annuncia il proposito di fornire un contributo anche da parte di Cicchitto e Marzo, un’iniziativa volta a costruire una sorta di “casa dei riformisti”.
“Il socialismo riformista, continuatore del liberalismo” (cit. Bernstein), potrebbe guardare con interesse a tale iniziativa a condizione di salvaguardare compiutamente la propria identità, senza dover relegarne le istanze in una condizione di marginalità o peggio, affievolirne la presenza in un coacervo eclettico, distaccato dalla sua storia e dai suoi referenti sociali.
In questo senso, una aggregazione del riformismo socialista, liberaldemocratico e cattolico non può che poggiare su un programma che comporti un ventaglio di riforme nella vita delle imprese, nella giustizia, nell’istruzione, nella sanità, nelle istituzioni, nello Stato sociale per adeguarlo alle nuove esigenze e alle nuove forme di lavoro.
Se l’edificazione del contenitore riformista prenderà avvio, il socialismo riformista potrà presentarsi a quell’appuntamento in ordine sparso e ciascuno con una propria rappresentazione programmatica di riformismo socialista. Per questo, si rende necessario e urgente che tutte le residue istanze interpreti della tradizione socialista si facciano carico di favorire la formazione di un ambiente idoneo a superare e ricomporre le divisioni di questi anni per dare unicità politica e programmatica nonché maggiore autorevolezza e rappresentazione al socialismo riformista.
1 comment
Vorrei capire la logica che porta, all’interno di un discorso interessante e condivisibile, a tenere fuori l’unico gruppo che da sei anni si misura con un progetto organico di riforme per cambiare il paese. Guardiamo la realtà: Bonino è liberale e liberista in economia, ha una sorta di allergia a lavorare in gruppo, Calenda ha una cultura economicista e manca di una visione generale del paese , potrebbe essere il consulente di qualsiasi governo lo dovesse stimare e sentire. Bisogna forse costruire la terza gamba dell’ulivo formato Bettini e assunto come propria strategia da Letta?