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Conversazione con Massimo Cacciari

by Maria Sole Sanasi d'Arpe

Come si affronta la crisi – Dall’Umanesimo all’odierno populismo

Ecco l’attualità: l’Impero. “Non c’è niente di più globale”. E’ Massimo Cacciari, in questa conversazione a sollecitare ciò che è anche il titolo dell’antologia Umanisti italiani, pensiero e destino – edizioni Einaudi. Ecco: “Ripensare l’Umanesimo”.

Il pensiero umanista – intrinseco al nostro destino – si rende assoluto protagonista nella società della globalizzazione. Assoluto non a caso, perché “non c’è niente di più globale: basti pensare alla prospettiva dantesca, del tutto universale poiché imperiale; e l’Impero, per Dante, è la forma di regime più razionale: l’unica che rappresenti l’universalità dell’intelletto umano. E’ un elemento di grande attualità; l’Umanesimo muove da istanze del tutto universali”.

La definizione stessa che ne danno gli studiosi, considerando l’Umanesimo in funzione della propria posizione teoretica, come un momento, lo rende indipendente da qualsiasi idea di temporalità. Un momento, che è insieme dentro e fuori dal tempo, del quale “non si può capire la natura se non se ne scorge la caratterizzazione riformatrice, opposta alla semplice speculazione” totalmente distante dalla teoria e relativa all’azione dell’uomo al centro nietzschiano capace di porre in-forma la propria volontà. Quella volontà di potenza, che si realizza tramite il concetto di renovatio, “un appello che combina in sé i timbri del rinnovamento spirituale, della riforma politico-civile e di quella religiosa”.

La rinascita, di cui parla Cacciari, non fa riferimento “al risorgere di un passato, ma a risvegliare il presente”. “E non può esserci riforma, sia essa culturale, politica o religiosa, che non cambi la mente degli uomini: anche se ad oggi, il nostro discorso di riforme, è un discorso a pezzi, a brandelli”. Ormai “non abbiamo nessuna idea di re-novatio”.

Quando gli umanisti vivevano una svolta d’epoca, ne erano fortemente consapevoli: crisi della Chiesa, crisi dell’Impero, crisi della Cristianità, scoperta dell’America, la discesa di Carlo VIII in Italia e la conseguente fine dell’equilibrio politico italiano che era il centro dell’Europa”. La capitolazione generale di tutti questi equilibri, figlia della katastrophé e genitrice di una nuova epoca, che ha superato l’aufhebung hegeliano, lo stato di incertezza e travaglio, diviene κrisis dirimente. “La chiarezza del periodo di crisi, è evidente per Pico, per Valla che ne avvertono la compenetrazione politica e religiosa”.

Una consapevolezza che adesso è “mancante nel modo più assoluto, anche perché i problemi odierni, sono infinitamente più complicati: la specializzazione della scienza, la possibilità di mettere insieme i diversi specialismi, rendono tutto molto più difficile”. Perciò “non possiamo avere coscienza delle prospettive politiche, civili e religiose perché, per il nostro modo nuovo di essere e pensare, forse sono diventate impraticabili”. Anche per il modo di parlare: “Oggi dobbiamo solo informare e farci capire rapidamente. Senza disporre di una lingua come di un’arma efficace per porre in chiaro le nostre idee: il linguaggio nei media attuali non conta, è andato a farsi benedire. Non c’è nessuna consapevolezza di ciò che si dice; è un mondo in cui ‘siamo parlati e non parliamo’. Per gli umanisti invece non poteva esserci una differenza tra il modo in cui esprimersi e il contenuto dell’espressione”.

Un linguaggio chiaro, frutto di idee chiare e distinte “della capacità di mettere tutto in prospettiva, di rendere tutto misurato, misurabile e ordinato. Senza distinzione tra contenuto e forma: un tutt’uno indistinguibile e inseparabile”. Il confronto tra il linguaggio umanista “ordinato” e il disordine di quello attuale trova il suo culmine nel populismo dilagante che “non può esprimersi che così, con l’unica ​funzione di colpire chi ascolta, tramite una lingua patogena che non crea intelletto ma soltanto pathos fine a se stesso” sentimenti sterili privi di contenuto, vuoti di idee. “Basta ascoltare un discorso di alcuni nostri politici: è lo specchio dell’assenza di idee “chiare e distinte” afferma Cacciari. “La differenza è evidente; la scelta degli umanisti sta nel rappresentare la crisi in modo chiaro, pacato – e non patogeno come fa il populismo – per giungere ad indicare una via d’uscita. E come fare ad affrontarla positivamente se non ponendola in termini universali?

Se il mondo è in pezzi – come gli umanisti credevano che fosse, secondo la visione tragica del periodo – come ricomporlo a pezzi?” E non solo loro, perché il nostro, medesimamente, “non potrebbe essere più a pezzi di così: un disordine globale in cui tutti i vecchi equilibri sono finiti”. Se nel 500 eravamo alla spasmodica ricerca di un Re, “E Re non è chi ha il regno- dirà Campanella – Re è chi è capace di reggere”, lo siamo tutt’ora: alla ricerca di chi saprà reggere questo nostro equilibrio squilibrato. “Di chi saprà abbattere il vecchio, con una rivoluzione che da riforma diviene novitas e dunque utopia (invenzione di un luogo nuovo)” In un Occidente che ha perso l’idea di futuro: un “Occidente senza utopie” (di Massimo Cacciari e Paolo Prodi, Mulino) che guarda alla crisi della società attraverso le categorie di profezia e utopia . La società ha “smantellato gli studi filosofici, letterari, linguistici, perché c’è la fiducia – secondo me cieca – che il nuovo ordine sarà dominato dalla razionalità tecno-scientifica. Ormai la forma mentis comune ritiene che gli studi umanistici siano i principali fattori della crisi e del disordine perché non parlano linguaggi tecnici” escludendo l’individualità dell’uomo Heideggeriano. “Questa razionalità tecno-scientifica non è altro che un prodotto della storia della filosofia occidentale ed Europea e avanza la pretesa di esserne l’unico erede legittimo perché avallato dal potere”. Dunque “Usciremo da questa epoca di disordine con l’affermazione indiscussa che il Re è la razionalità tecno-scientifica?” Grazie agli scienziati e ai tecnici che Cacciari definisce “i più grandi filosofi di oggi” ? Gli stessi che hanno messo a margine gli studi umanistici, “come nelle facoltà Americane, dove si chiamano humanities e dentro c’è un po’ di tutto: un po’ di letteratura, un po’ di storia, la religione degli indiani, quella dei neri d’Africa, e insieme ci mettono anche Dante e le facoltà serie sono considerate quelle di biologia, fisica, matematica, ingegneria…”.

Naturalmente ogni genere di razionalità, questa stessa che si considera quale unica forma di sapere e potere effettuale, ha i suoi limiti “altrimenti non sarebbe razionale. Non può affrontare a priori il problema della comunicazione tra culture diverse perché ritiene se stessa l’unica forma di comunicazione sensata e le altre soltanto tollerabili” escludendo del tutto il quid est Homo e di conseguenza il riconoscimento spirituale reciproco. E’ incapace per sua propria natura di “porsi problemi interculturali, tantomeno interreligiosi. Gli umanisti ci chiederebbero: vorreste cambiare il mondo senza tener conto della religiosità dell’essere umano? Non c’è mai stato un grande cambiamento senza un Profeta”. Come nel dramma nietzschiano: “Come posso cambiare questo mondo che mi fa schifo, se da duemila anni non c’è un nuovo Dio?” E pure, si chiede Cacciari “Potrà essere sussunto nella razionalità tecnico-scientifica il problema politico? Come per Bacone o ne “La città del sole” di Campanella: il potere deve essere in mano ai grandi scienziati, alla guida di una tecnocrazia scientifica?” Alla domanda non c’è risposta immediata, ma la certezza che porci tale quesito, significa affrontarlo da un punto di vista “veramente umanistico”. E anche che la téchne “è esattamente opposta alla chiacchiera populista. L’opinione pubblica che denuncia l’incompetenza non è consapevole che l’unica alternativa ai populisti-incompetenti, sono i tecnici-competenti. Bisogna capire se questo è ciò che realmente vogliamo; o l’una o l’altra cosa. E non esistono vie di mezzo”.

Non esistono compromessi, per superare una crisi che sembra non sapere indicare vie d’uscita “creando elementi di follia, come il dilagare del femminicidio: uno dei suoi segni più evidenti e testimonianza di un cambio d’epoca”, di un cambio di paradigmi culturali, dove “la dimensione maschile non riesce assolutamente ad adeguarsi al mutamento del rapporto con l’altro sesso e si riflette fortemente nella condizione sociale e psicologica della gente”. Cacciari è assolutamente convinto che “l’unica rivoluzione socialmente epocale, sia stata quella femminista” che è avvenuta però “con tale rapidità, come quella che sta avvenendo adesso sul piano economico, da produrre un grande disagio”. Uno stato di malessere prevedibile, dal momento che “la nostra psiche ha un’inerzia che non è la stessa dei mutamenti tecnologici e culturali”. Per esempio “il tema della famiglia, del rapporto tra i generi ha conosciuto questa straordinaria evoluzione, prima di noi” cioè prima che potessimo interiorizzarla. “Una cosa è che cambino i fatti, un’altra è aver assimilato il cambiamento. Non è pensabile stravolgere la famiglia in modo “indolore” e adeguarci ad una grande trasformazione con la stessa rapidità con cui è avvenuta. “La follia si genera laddove non si riesce a prendere coscienza di un cambiamento. Semplicemente, stiamo fingendo di adattarci alle trasformazioni senza averne consapevolezza, senza capirne la traumaticità, perciò senza dominarle.

Il riformista che applaude alle unioni civili e all’immigrazione o il conservatore che fischia perché ‘la famiglia tradizionale non si tocca’ e vuole chiudere le frontiere, senza comprendere, sono la stessa cosa”. Ecco il monito fondamentale degli umanisti: Se non conosciamo e comprendiamo il cambiamento, non sapremo esserne registi ma soltanto attori, comparse senza facoltà di scelta.

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