Home In evidenza Turati, Prampolini e Matteotti, fondando il PSU contro il partito ufficiale di Serrati

Turati, Prampolini e Matteotti, fondando il PSU contro il partito ufficiale di Serrati

by Calogero Jonathan Amato

Si prendono le distanze non soltanto dai socialisti della Terza Internazionale ma anche dai fascisti per il loro comune uso della violenza. Così Filippo Turati, Camillo Prampolini, Giacomo Matteotti, espulsi dal partito socialista ufficiale in procinto di diventare partito unico di unità proletaria rifondano la tradizione socialista con la denominazione di «partito socialista unitario» di cui diviene segretario Matteotti. Nell’anno precedente, era stato proprio Matteotti a redigere anonima, per incarico del partito, L’Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia in cui si denunciavano le violenze dell’azione fascista durante la campagna elettorale del 1921. La pubblicazione del 1921 ha tanto successo che l’anno seguente lo stesso partito lo incarica di redigere una nuova edizione di oltre 504 pagine che non si limita alle violenze di una campagna elettorale ma si estende alle altre violenze compiute dai fascisti. Tuttavia Metteotti  non si ferma a questo punto: secondo lui anche i socialisti ne sono colpevoli in quanto «il nemico è attualmente soltanto il fascismo ma complice involontario è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e la dittatura dell’altro».

Ciò significa che:

a) se la violenza od anche semplicemente la forza non possono essere princìpi della politica, l’osservazione e la prassi di Matteotti stanno diventando i vertici più significativi del revisionismo socialista iniziato dallo stesso Engels nell’ultimo decennio del secolo precedente, vale a dire la prospettiva dell’abolizione della lotta non solo quale metodo di fondo di un movimento o di un partito, ma anche di ogni forma della scienza e dell’etica politica; b) all’interno di tale prospettiva viene allora attuata la critica più penetrante alla contraddittoria assolutezza del modello leninistico del marxismo il quale non solo esalta la lotta della sua classe e del suo partito anche quando aggredisce e conquista e condanna indiscriminatamente le lotte di tutti gli altri anche quando difendono la loro esistenza; c) se si critica e logicamente rigetta il fascismo a motivo della lotta aggressiva non si può fare a meno di criticare e rigettare anche il socialismo per il medesimo motivo; d) sono dunque carenti le prospettive politiche tanto del partito fascista quanto di quello socialista dal momento che sono difettosi i princìpi delle rivoluzioni rispettivamente nazionale e sociale; e) al là delle denominazioni che lasciano il tempo che trovano, in ogni caso l’esito della dimensione politica deve essere una forma di democrazia che, come tale, esiga nelle relazioni il rispetto più rigoroso tanto della vita altrui quanto della austerità propria; f) al là delle denominazioni che lasciano il tempo che trovano, in ogni caso l’esito della dimensione politica deve essere una forma di democrazia che, come tale, esiga nelle relazioni il rispetto più rigoroso non soltanto della vita altrui ma anche della austerità propria; g) da ciò consegue che l’imperativo della ratio di una politica autenticamente rivoluzionaria deve rigettare qualsiasi tipo di autoritarismo, di immoralità, di egoismo da una parte e di promuovere amore, libertà, universalità, comunione dei popoli e delle persone dall’altra, lanciandosi soprattutto contro la violenza e la corruzione che sono gli esiti inevitabili nell’area della politica quando è priva di eticità.

Pur non avendone consapevolezza per i motivi dei socialisti revisionisti, Matteotti non può non indicare anche nella prospettiva politica tanto l’assunzione di quel «fuoco sulla terra» quanto l’esclusione della malversazione dei potenti come aveva indicato Cristo. Così, con singolare affinità del tragico processo risolto nel pretorio di molti secoli a Gerusalemme, finisce nella morte l’ultimo discorso di Matteotti alla Camera dei deputati del 30 maggio 1924 per domandare il rinvio delle elezioni del 6 aprile inficiate dalla violenza e per tenere documenti che, secondo lo storico Renzo De Felice, avrebbero riguardato i rapporti tra Vittorio Emanuele III e la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil.

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