Nonostante
siano quasi dei sinonimi del linguaggio la definizione politica di “riformista”
e “riformatore” ha rappresentato nell’interpretazione che ne diedero il Psi e
il Pci uno dei motivi più accesi della contesa politica.
Bisogna
partire in realtà dalla definizione di riformista che venne privilegiata e
riscoperta da Bettino Craxi, il quale era un convinto e battagliero autonomista
milanese vicino a Pietro Nenni e che dopo il congresso del Psi al Midas nel
1976 inaugurò una lunga stagione da protagonista dell’azione e dell’iniziativa
socialista. Si rimodulava in tal modo la strategia del socialismo italiano
ancorandolo definitivamente nell’alveo della tradizione in cui i padri
fondatori Turati, Treves e Bissolati aspiravano a collocare il Partito
socialista italiano.
Già da tempo
le formazioni europee di ispirazione socialista avevano portato avanti la
revisione delle tendenze massimalistiche e marxiste presenti nel proprio seno.
Mentre il Psi degli equilibri più avanzati di Francesco De Martino era relegato
a un ruolo subalterno tra la Dc e il Pci nelle dinamiche della democrazia
consociativa che dominava l’Italia anche se pesava come un macigno il fattore k
che escludeva un’alternativa di sinistra al governo del paese.
L’idea
maturata dalla riproposizione del riformismo nel disegno della nuova classe
dirigente socialista era quella di mitigare in chiave moderna il capitalismo e
regolare gli effetti perversi del mercato con una nuova politica economica del
welfare che ponesse limiti al liberismo senza mortificare la libertà di impresa
e tutelando i diritti dei lavoratori. Quindi un programma concreto che mettesse
definitivamente al bando il dogmatismo ideologico del Pci in grande ritardo sul
processo di rinnovamento e che arrivava a giustificare sul piano teorico il
leninismo sovietico e con esso il modello dei paesi dell’est seppur
condividendo, come gli altri partiti costituzionali, il metodo della democrazia
rappresentativa.
Però il Pci
non tardò a sconfessare la parola riformista usata dai socialisti per non
smentire tout court la sua storia poiché questa espressione evocava la
scissione di Livorno del 1921 quando nacque il Partito comunista e quando si
lottavano appunto gli eretici social- riformisti che vennero definiti
successivamente con disprezzo, astio e odio borghesi da combattere alla stregua
dei fascisti come nemici del popolo.
Si riaprirono
così anche negli anni Ottanta del secolo scorso antiche e sanguinose ferite che
hanno pervaso la lunga e difficile storia dei rapporti a sinistra. In Unione
Sovietica e nei paesi del dominio sovietico i socialisti democratici erano
stati eliminati in grande quantità e così bisognava fare anche nei paesi della
Terza internazionale nei confronti di tutti coloro che non erano ortodossi alla
rivoluzione bolscevica.
Enrico
Berlinguer si inventò dunque la definizione di “riformatore” come sofisma o
arma da opporre a quella non accettata dagli ideologi del Pci di “riformista”.
Questo era l’ennesimo e misero tentativo di delegittimare la Grande Riforma
delle istituzioni che i socialisti intendevano portare avanti e si tentò a
tutti i costi, con una quotidiana polemica, di stemperare la carica di
modernizzazione della società italiana di cui i socialisti furono indiscutibili
portatori. Insieme alla presunta diversità morale dei comunisti e alla
teorizzazione del compromesso storico anche la definizione dei comunisti come
veri “riformatori” tendeva a distinguerli dai socialisti riformisti.
Una brutta
pagina di storia che ancora oggi spiega il clima di falsità e menzogna che
regnava in quegli anni in Italia. Oggi basta ripensare come in buona sostanza
si sono ridotti i paesi dell’ex-Patto di Varsavia che sono passati dal dogma
della dittatura del proletariato alla dittatura del mercato senza controlli o
alla Cina che ha ancora un cruento regime comunista in cui si convive con forme
di capitalismo selvaggio che sfrutta la manodopera senza riconoscere i diritti
sociali.
Mentre in
quegli anni il conservatorismo del Partito comunista lanciava anatemi a
sinistra ed essere riformista era il peggiore dei mali. La strada indicata dal
Pci serviva a risolvere le ambiguità e le contraddizioni ideologiche di una
forza politica non completamente affrancata dai modelli del comunismo sovietico
e che cercava così di rintuzzare in modo balbettante e imbarazzante la politica
socialista che innovava la sinistra.