Da tempo chi fa politica con la sovraesposizione mediatica sui social non esiste se non scrive continui pensieri su ogni cosa e deve sempre mostrare non solo la sua onnipresenza ma anche un’onnicomprensiva (presunta) capacità di sapere.
Sembra un puro gioco di parole ma la realtà che abbiamo di fronte è un fenomeno senza limiti e forse deprimente sul piano sostanziale laddove il gioco si fa sempre più vorticoso al punto che chi ricopre ruoli istituzionali o diviene leader di una formazione politica deve possedere innanzitutto un eccellente staff della comunicazione che tenga un filo diretto con la gente cercando di comprendere quel che pensa.
Purtroppo però si va avanti con battute grottesche e ridicole, parole d’ordine da marketing, frasi chiave povere e inconcludenti che molto spesso non consegnano all’opinione pubblica nessun contenuto o idea plausibile o applicabile ma solo propaganda spicciola, arida e scadente.
Nel passato occorreva, oltre all’arte oratoria e alla retorica, anche la dote del carisma tipica del tribuno dell’agorà per i raduni nazionali che ieri erano un modo di incontrare, interagire e motivare gli iscritti, i militanti, gli attivisti e i simpatizzanti. Il tutto si organizzava con le mastodontiche e attrezzate macchine dei partiti che erano strutture insediate in modo capillare e organico nel territorio.
Oggi invece basta comparire sui social per mobilitare le aree elettorali di appartenenza e le attività di confronto nelle sezioni e nelle strutture periferiche sono pressoché inesistenti indebolendo e violando così il principio sancito da norme costituzionali di partecipazione del cittadino alla vita democratica. Obsoleti e superati appaiono gli strumenti per concorrere alla vita pubblica mentre si esaspera e si evidenzia in modo ancora più marcato rispetto al passato la tendenza di gestione dei partiti a oligarchie o autocrazie che non tengono in nessuna considerazione i punti di vista della gente.
Per la verità anche nella cosiddetta prima Repubblica con il sistema elettorale proporzionale i capi partito e i notabili delle varie province svolgevano un ruolo di catalizzatori dell’azione e dell’iniziativa politica spegnendo i dibattitti e orientando a proprio piacimento la logica della correntocrazia che era una regola anche in partiti minuscoli con scarse percentuali elettorali.
Ma all’epoca i partiti esprimevano una intensa vitalità e quanto meno fornivano piattaforme programmatiche ideologiche o ideali su cui si innestavano elaborazioni di proposte concrete e attuative dei principi fondatori o su cui si innescavano anche confronti pubblici come gli attivi di zona in cui tutti potevano intervenire criticamente.
Con la nascita della cosiddetta seconda Repubblica si è sancita sempre più un’aporia del regime parlamentare con la nascita dei partiti personali o aziendali in cui si mette in prima linea la faccia del capo sovrapposta a qualsiasi idea generale al punto che sono state liquidate le scuole di formazione politica, sostituite da kermesse confuse e caotiche.
Le mutazioni genetiche e i cambiamenti dei contenuti programmatici sono stati, quindi, all’ordine del giorno dell’agire politico come, peraltro, l’intercambiabilità di maggioranze di governo oppure di schieramenti diversi tra centro e periferia. Sono fenomeni presenti anche nel passato, quando il sistema era bloccato e si tendeva comunque a garantire una convergenza di schieramenti omogenei. Oggi, con il cambiamento delle leggi elettorali, il panorama sociale appare soppiantato da una frastagliata e confusa azione politica. Quel che però sembra certo e naturalmente indubitabile è il fatto che assistiamo basiti a una continua campagna elettorale rappresentata dai talk show dove sono garantiti applausi per tutti. In attesa della prova dei fatti dove i fischi sono assicurati.