Dieci mesi dopo la fine del primo conflitto mondiale, il Parlamento del Regno d’Italia votava una nuova legge elettorale per le elezioni politiche. Il testo approvato entrò in vigore il 15 agosto 1919 e il consenso era stato di 224 voti favorevoli e 63 contrari.
L’allargamento del numero degli elettori era una promessa di Vittorio Emanuele Orlando, presidente del Consiglio, mentre era in corso la guerra contro l’Austria. Erano ammessi a votare i giovani soldati, con una età inferiore ai ventuno anni, che potevano dimostrare di essere stati sei mesi in trincea o di aver partecipato ad azioni di guerra in marina.
Oltre all’impegno del governo del re a estendere la rappresentanza politica a milioni di cittadini, un convinto sostegno alla nuova legge era arrivato da socialisti, cattolici popolari e repubblicani.
Le donne però non ottennero alcun riconoscimento politico e giuridico. L’impegno, la solidarietà, l’immane lavoro nelle retrovie, nelle fabbriche, negli ospedali del mondo femminile non bastò per ottenere l’ammissione al voto, né politico né amministrativo. Il riconoscimento paritario alle donne ci sarà con le leggi dei comitati di liberazione nazionale, nel secondo dopoguerra.
Il merito di aver approvato una legge elettorale con significativi riconoscimenti alla volontà popolare va assegnato a Francesco Saverio Nitti, presidente del Consiglio subentrato ad Orlando. Abile politico, lo statista di Melfi intendeva stemperare la strisciante guerra civile che si andava delineando.
Il primo articolo della legge n. 1401 sosteneva: “L’elezione dei deputati è fatta a scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale. Ciascun collegio è costituito da una provincia o da più provincie contigue”. Si esprimevano le preferenze sino a quattro per simbolo, non si poteva essere candidati in più di due collegi e i seggi elettorali erano aperti dalle sette del mattino sino alle ventidue.
Il Parlamento da eleggere era composto da 508 deputati, espressione di 54 collegi, mentre il senato del regno era di nomina regia. I componenti erano nominati dal re e per aver diritto al voto bisognava aver aver superato i quarant’anni.
La Puglia del 1919 aggregava tre provincie: Bari, Foggia e Lecce e doveva eleggere 28 deputati, così suddivisi: dodici Bari, sei Foggia e dieci Lecce. Presentarono liste con il proprio simbolo i socialisti, i popolari, i combattenti decisi a costituirsi in partito autonomo con il nome “Realtà italiana”.
Le liste liberali esprimevano candidature di uomini politici al tramonto e la legge 1401 confermò la certezza di una società che con la guerra era cambiata alle radici. Nel collegio di Bari furono eletti due socialisti: Arturo Vella e Nicola Barbato. Tre eletti a Foggia.: Michele Maitilasso, Domenico Maiolo e Leone Mucci.
Il geografo Carlo Maranello, collaboratore di Salvemini e docente a Bari dell’Istituto superiore di ragioneria, trasse dalle elezioni del 16 novembre alcune considerazioni pubblicate sul Corriere delle Puglie: “Più particolarmente nella nostra provincia le recenti elezioni, fino ad un certo punto in dipendenza della riforma elettorale, hanno dimostrato che pure da noi, quando non si adottano sistemi elettorali quali quelli giolittiani ora universalmente deplorati, è possibile una lotta politica senza violenze, senza brogli e, diciamolo pure: senza che necessariamente debbano uscire i candidati al governo”.