L’ha chiesto a gran voce a maggio, torna a farlo in questi giorni: dopo Next Generation EU, Mario Draghi vorrebbe che anche sui migranti l’Europa battesse un colpo. Dall’altra parte arriva qualche apertura, nessuna promessa, di certo nulla che faccia pensare a una reale risposta coordinata da parte di tutti e 27 gli Stati membri sulla gestione delle richieste di protezione una volta che i migranti irregolari siano giunti su suolo europeo. A sei anni dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati”, l’Europa non è ancora pronta. Anzi, se possibile, è meno pronta di quanto lo fosse nel 2015, e meno ancora che nel 2019.
Non che a livello diplomatico l’Italia non ce la stia mettendo tutta, anzi. La settimana scorsa i Med5 (l’Italia assieme a Spagna, Malta, Grecia e Cipro) hanno sbloccato la riforma dell’Easo, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, acconsentendo a dotarlo delle caratteristiche di un’Agenzia a pieno titolo. Era uno dei dossier che Roma teneva bloccati da cinque anni, sostenendo che la riforma del governo delle migrazioni in Europa dovesse essere negoziata “a pacchetto”: o tutto, o nulla.
Malgrado ciò, la realtà dei fatti rimane la stessa di sempre: i 27 Stati membri dell’Ue sono d’accordo solo quando si tratta di “esternalizzare” la gestione dei flussi migratori. In altre parole, il consenso si trova solo quando si tratta di rafforzare la gestione delle frontiere esterne (per esempio aumentando in misura significativa le risorse a disposizione di Frontex, la Guardia costiera e di frontiera europea, passate da 94 milioni di euro l’anno nel 2013 a 544 milioni di euro nel 2021) o di chiedere a Paesi terzi, come Turchia, Niger o Libia di sorvegliare i transiti e, nei limiti del possibile, ridurli al minimo.
Lunedì scorso Draghi era in Germania, tra le altre cose per tastare il terreno e capire se Angela Merkel avesse intenzione di concedergli spazio politico per negoziare un accordo preliminare sul ricollocamento volontario dei migranti. Una sorta di “Malta II”, come è stato soprannominato, perché si tratterebbe di una riproposizione della dichiarazione di Malta del settembre 2019. Nel corso della conferenza stampa congiunta Merkel, invece, ha sottolineato che c’è “ampia convergenza” con l’Italia ma che “occorre iniziare ad agire dai Paesi di partenza, e su questo siamo completamente d’accordo”. A sua volta, Draghi ha ammesso che sui “meccanismi di riallocazione (…) i negoziati prenderanno del tempo”.
È d’altronde naturale che sia così, per tre ragioni. Innanzitutto, i Paesi teoricamente più disposti ad aiutare l’Italia sono anche quelli che dal 2013 a oggi hanno fatto di più in Europa, e persino nettamente più di Roma. Mentre in Italia a oggi risiedono circa 128.000 rifugiati (lo 0,2% della popolazione), in Francia sono 408.000 (lo 0,6%), in Germania 1.147.000 (lo 1,4%) e nella “piccola” Svezia ben 254.000 (il 2,5%). Difficile sostenere che, almeno da questo punto di vista, in Italia il “carico” sia eccessivo. In secondo luogo, oggi gli arrivi irregolari via mare verso l’Italia sono sì cresciuti rispetto ai minimi del 2019, ma si stanno stabilizzando intorno ai 45.000 l’anno rispetto ai 150.000/180.000 l’anno del periodo 2014-2017. Si tratta di numeri sicuramente gestibili (equivalgono allo 0,07% della popolazione italiana), che arrivano in un momento in cui il sistema di accoglienza italiano (fatta salva, naturalmente, l’isola di Lampedusa) non è in alcun modo in una situazione di stress o di sovraccarico.
Infine c’è, ovviamente, la quantità di capitale politico che ciascun leader europeo considera di poter spendere. Sì, perché quella delle migrazioni irregolari rimane una questione politicamente tossica, terreno di caccia non solo delle destre radicali d’Europa ma anche più in generale delle opposizioni non moderate, e i governi dei grandi Paesi europei stanno cercando in tutti i modi di evitare di finire sotto attacco in un momento molto delicato. La Germania va alle elezioni federali a settembre, con Merkel che lascia la Cdu in mano a un leader relativamente debole (anche se i consensi sono in ripresa dopo la caduta libera degli ultimi mesi). E la Francia dell’“europeista” Emmanuel Macron – comunque mai tenero sul dossier migrazioni – va alle urne tra meno di un anno, con questo Consiglio europeo che cade proprio alla vigilia del secondo turno di cruciali elezioni regionali.
Insomma, lo spazio per un nuovo accordo è strettissimo, probabilmente nullo. Rimane da capire se non sia meglio così. Dopo la dichiarazione di Malta, tra ottobre 2019 e giugno 2021 l’Italia è riuscita a ricollocare poco più del 2% del totale dei migranti sbarcati sul proprio territorio. La prova provata che invocare soluzioni tappabuchi in nome di una sperata “solidarietà europea”, rassegnandosi a impegni volontari, rischia di rivelarsi un’arma a doppio taglio e di concludersi nuovamente con impegni di facciata ma con il 98% delle persone sbarcate che rimane in Italia.
Di fronte a un’Europa che non ascolta o che, quando sembra farlo, poi non dà seguito alle proprie promesse, sembra quasi che a ogni governo italiano continuino a sfuggire due verità. La prima è che i ricollocamenti che funzionano meglio sono sempre stati quelli “automatici” delle persone che, una volta sbarcate in Italia, si spostano autonomamente (e illegalmente) altrove in Europa. Le regole di Dublino vorrebbero che il Paese in cui si sbarca fosse anche quello che dovrebbe farsi carico della valutazione delle domande d’asilo, e dunque se un migrante si sposta irregolarmente verso un altro Paese europeo, quest’ultimo sarebbe legittimato a chiedere a Roma di “riprenderselo”. In realtà, dei quasi 850.000 migranti sbarcati in Italia tra il 2011 e oggi, si stima che più della metà di loro (circa 450.000) abbia varcato i confini italiani verso una diversa meta “di destinazione” in Europa. Di questi, l’Italia se ne è poi ripresi in ottemperanza alle regole di Dublino solo circa 35.000, meno dell’8%. Questo perché il sistema Dublino fa acqua da tutte le parti, i migranti non è detto che vengano rintracciati in tempo utile per chiedere all’Italia di riprenderseli, e anche qualora ciò avvenga Roma può comunque utilizzare una serie di stratagemmi per ritardare il trasferimento finché il richiedente asilo non diventi automaticamente responsabilità del Paese che ha raggiunto. Facciamo i conti: in questo modo l’Italia ha “ricollocato” circa 415.000 persone, a fronte di ricollocamenti “legali”, tra il 2015 e oggi, che si fermano sotto quota 15.000. Un rapporto di 28 a 1.
La seconda verità, su cui continuiamo a lavorare troppo poco, è che l’Italia è un lembo di terra che si allunga nel Mediterraneo, meta naturale delle migrazioni irregolari via mare che provengono dall’Africa. Senza dare ai migranti alternative per raggiungere l’Ue in maniera regolare, è naturale che le persone continueranno a farlo sfidando il mare che li separa da noi. Eppure, malgrado meritevoli sforzi da parte del governo italiano (uno dei pochi in Europa), i reinsediamenti diretti dei rifugiati dai Paesi terzi verso l’Ue restano una goccia nel mare. Ma, soprattutto, i decreti flussi annuali che stabiliscono le quote di stranieri che potrebbero venire regolarmente a lavorare nel nostro Paese restano bassissime: per la parte di lavoratori non stagionali (quelli cioè che possono stare almeno un anno sul territorio italiano, e non al massimo nove mesi) il numero non supera i 15.000 posti dal 2017, e i 31.000 da oltre un decennio.
A fronte di pressioni migratorie così elevate alle nostre frontiere, l’Italia ha diverse alternative che non prevedono il negoziato con partner europei che appaiono sordi alle nostre richieste. Al termine di questo ennesimo Consiglio europeo, potrebbe forse essere giunta l’ora di cominciare a percorrere le altre strade a nostra disposizione.