Oggi, 12 dicembre, a soli due anni dalle ultime consultazioni, 44 milioni di britannici saranno chiamati nuovamente alle urne. Al centro delle elezioni il nodo Brexit. Facciamo allora un passo indietro e vediamo come siamo arrivati a questa situazione confusionaria per i più.
Il 23 giugno 2016 si svolse il referendum consultivo e non vincolante per verificare se il Regno Unito dovesse continuare a rimanere all’interno dell’Unione europea. Sulla scheda i cittadini trovarono scritto: “Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union?” (Il Regno Unito dovrebbe restare un membro dell’Unione europea o dovrebbe lasciare l’Unione europea?).
Una partita giocata a colpi di “Leave” o di “Remain”. I sostenitori dell’uscita erano convinti che non far più parte della Ue avrebbe permesso al Regno Unito di meglio controllare l’immigrazione, di ridurre la pressione sui servizi pubblici, sull’housing e sul lavoro, di risparmiare milioni di sterline pagate ogni anno alla Ue e permettere di concludere in autonomia i propri trattati commerciali liberando lo Stato dalle regolamentazioni comunitarie e dalla burocrazia. Al contrario i “Remain” sostenevano che lasciare la Ue avrebbe messo a rischio la prosperità del Regno, diminuendo la sua influenza negli affari globali, mettendo a repentaglio la sicurezza nazionale, riducendo l’accesso ai database criminali comuni europei e causando l’imposizione di dazi tra il Regno Unito e la UE.
In quella occasione andò a votare il 72,21% delle persone (sul numero degli elettori), quindi circa 33 milioni e mezzo di cittadini che si espressero per l’uscita dalla UE (51,89%) contro il 48,11% che chiedeva invece di rimanere all’interno dell’Unione europea.
Ma neanche troppo tempo dopo molti di coloro che prima volevano uscire cambiarono idea ritenendo, invece, che la scelta più giusta sarebbe stata restare all’interno della Ue. Da lì ad oggi gli eventi di cronaca li conosciamo molto bene. Come non ricordare le dimissioni del former Prime Minister britannico Theresa May, la seconda donna dopo Margareth Thatcher ad assumere un incarico di così elevato valore. Tenne un discorso a Downing Street che commosse tutti, compresa la stessa May. Al centro del suo intervento sempre la Brexit e la decisione del popolo britannico di lasciare l’Unione europea: “Ho fatto il possibile per raggiungere l’accordo. Per me è questione di grande rammarico, e lo resterà sempre, il fatto di non essere stata in grado di portare a termine la Brexit. Ho fatto il possibile per convincere i deputati a sostenere quell’accordo ma purtroppo non sono stata capace di farlo. Ho provato a farlo tre volte. Credo sia stato giusto perseverare. Lascio l’incarico che è stato l’onore della mia vita, la seconda donna premier, ma certamente non l’ultima. La nostra politica potrà essere in difficoltà, ma c’è così tanto di buono in questo paese, così tanto di cui essere orgogliosa”.
Al suo posto venne Boris Johnson, che promise di far uscire il Regno Unito dalla Ue entro il 31 ottobre 2019 con o senza accordo. Una promessa che, ad oggi, ancora non ha potuto mantenere. Per farla breve, Johnson chiese ed ottenne dalla Regina Elisabetta di sospendere i lavori del Parlamento per 5 settimane, dal 10 settembre al 14 ottobre. Un gesto che non piacque a molti esponenti politici del Partito conservatore che decisero di dimettersi portando Johnson a non avere più la maggioranza assoluta nella Camera dei Comuni. La Corte Suprema britannica rincarò la dose dichiarando, lo scorso 24 settembre, non legale la sospensione del Parlamento. Questo non fece desistere il premier britannico che, fermo nel suo obiettivo di far uscire il Regno Unito, trovò un accordo, il 17 ottobre, con l’Unione europea. Ma anche qui la Camera dei Comuni, chiamata a votare su questo accordo due giorni dopo, rinviò il voto. A quel punto i 27 Stati membri, a seguito della richiesta sempre da parte di Johnson di un rinvio, stabilirono di posticipare la data di uscita del Regno Unito al 31 gennaio 2020.
E arriviamo ai giorni nostri. Johnson convinse i Laburisti a sostenere la convocazione di nuove elezioni fissate proprio per oggi, 12 dicembre. Una svolta che potrebbe portare a un dietro front di tutti quei cittadini che adesso preferiscono rimanere all’interno dell’Unione.
Quattro i maggiori giocatori che si sfideranno domani. A partire da Boris Johnson che, come detto fin qui, vuole trovare subito un accordo per uscire dall’Ue. Il Partito laburista, che vede in prima fila Jeremy Corbin, chiede di rinegoziare l’accordo e di indire un nuovo referendum (al suo fianco anche i Verdi, i gallesi di Plaid Cymru e i nordirlandesi di Sinn Féin). Spunta poi Jo Swinson dei Liberal democratici che vuole restare all’interno dell’Unione europea. E poi c’è Il Partito nazionale scozzese guidato da Nicola Sturgeon, che vorrebbe indire un nuovo referendum per l’indipendenza di Edimburgo proprio a causa della Brexit.
Come andrà a finire questa partita non sa da sapere. Quel che è certo è che oggi saranno eletti 650 membri della Camera dei Comuni che dovranno decidere se continuare a stare nella Ue oppure se è tempo di mettere un punto a tutto questo.