Il nostro Paese, in trent’anni di scorrerie, è divenuto politicamente provinciale, incapace di inanellare una politica internazionale da protagonista e di equilibrio, nel bacino del Mediterraneo.
Da sempre la politica arma i popoli per fini ideologici e religiosi, consumando tragedie umane, come accade in queste ore di guerra aperta tra uno Stato e un popolo, Israele e i palestinesi.
Il presidente del Consiglio del nostro Paese è politicamente inesistente nel contesto mediorientale, unitamente al ministro degli esteri, la cui inerte sintonia è allarmante.
L’inazione nella politica estera dell’Italia, dura oramai da trent’anni nell’avvicendamento di destra e sinistra, con esecutivi incapaci e timorosi di andare oltre le ratificazioni Atlantiche.
Anni in cui hanno perso la vita o sono stati esautorati, i protagonisti indiscussi di un cammino di pace in Medio Oriente, del quale fino ai primi anni novanta siamo sempre stati protagonisti.
L’omicidio di Rabin nel 1995, ha costituito l’inversione di marcia e la pietra tombale della politica di pace cui si era avviata Israele: due popoli, due stati. La morte di Arafat, malato e oramai messo al margine, giunge nel 2005.
Per lui, come per Rabin in Israele, una politica estremista nazionale ha agito mettendo entrambi nell’angolo, fino alla loro destituzione, giunta per entrambi in un modo o nell’altro.
L’Europa si avvaleva, fino ai primi anni novanta, dell’intervento politico costante e diretto dell’Italia, su Israele e l’Anp.
Una significativa azione volta alla pacificazione del conflitto dei due popoli, cui da tre decenni non esiste traccia.
Un conflitto bellico pagato dal popolo palestinese, dilaniato dalla corruzione politica, e dai cittadini di Israele, ingessati intellettualmente da un turbine politico-religioso integralista.
I mandanti di questa guerra priva di senso, sono estranei a quel lembo di terra santa, a quell’arido deserto che sembra aver contaminato le menti di coloro che lo abitano.
L’Italia è concentrata su un piano di rinascita, che vede ancora una volta irrorare un’economia desueta, piuttosto che muovere verso il cambiamento.
Un piano economico che si astiene dal finanziare gli ambiti propri di qualsiasi rinascita, quali istruzione, università e ricerca, per accontentare fazioni politiche incapaci di progettare un futuro.
Partiti ancorati al passato, di cui gli stessi attori non conoscono i moti intellettuali, scientifici e politici, da cui, quel passato non più presentabile, ha avuto origine.
Un’Italia politica che ha perso di vista il contesto internazionale, se non per ratificare il dettato Atlantico cui, più che vincolata, è prigioniera.
La proposta della Cina, presidente di turno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, attinge alla vecchia e insostituibile formula per quel lembo di terra in Medio Oriente: due popoli, due stati, con Gerusalemme est capitale dello stato palestinese.
Un passaggio improbabile nell’immediato, ma verso cui tendere senza esitazioni e per il quale è necessario imporre, da subito, il controllo internazionale di Gerusalemme, ove non può e non deve essere permessa l’epurazione, alla quale assistiamo da ignavi osservatori.
Siamo giunti nel XXI secolo, forse per caso, probabilmente grazie all’impegno di esseri umani che, avversando gli estremismi politici e ideologici, ci hanno consentito di superare il XX secolo, che ha costituito l’abisso dell’umanità, non solo per la storia moderna.
Un secolo in cui le ideologie politiche, di destra e di sinistra, hanno condotto l’umanità sull’orlo del baratro.
Ci siamo svegliati da quel “Secolo breve”, con un accelerazione degli integralismi religiosi, su cui gli stessi produttori di morte hanno investito il loro rigoglioso futuro, per affossare il nostro.
Eppure il presidente del Consiglio, che ha vissuto nelle istituzioni, quel XX secolo, in cui la politica estera italiana aveva una chiara connotazione, volta all’equilibrio nel bacino del Mediterraneo, oggi resta in silenzio di fronte al bagno di sangue arabo-israeliano, e non meno titubante ci pare, sul come affrontare il disastro umano dell’immigrazione.
Dobbiamo ricrederci sulle capacità politiche di un “contabile”, capace di lavorare e dire “costi quel che costi” per salvare una moneta, ma non per salvare la pace in un conflitto cui non siamo estranei.