Domenico Geraci detto “Mico” svolse un forte impegno sindacale per tanti anni alla Cisl e la stessa organizzazione sindacale lo indicò come componente nell’ufficio di gabinetto dell’Assessorato Regionale all’Agricoltura. In seguito decise di passare alla UIL e, comunque, la passione per la politica prese il sopravvento e si dedicò all’attività politica divenendo consigliere comunale nel comune di Caccamo in Provincia di Palermo.
Nel 1994 fu eletto Consigliere provinciale del Partito Popolare Italiano della Provincia di Palermo. Tuttavia lasciò quella carica per annunciare la sua candidatura a sindaco del Comune di Caccamo. Per Mico fu la cronaca di una morte annunciata e la mafia gli lanciò diversi avvertimenti e minacce come l’incendio dell’auto che fu il primo segnale allarmante.
Appena due mesi dalla candidatura, all’età di 44 anni, l’8 ottobre del 1998 i killer di cosa nostra, che erano in quattro su una Fiat Uno, lo attesero poco dopo le 21 sotto casa, trucidandolo a fucilate. Geraci prima cadde a terra in un lago di sangue, si rialzò a fatica, poi ricadde di nuovo, mentre, richiamato dai colpi di fucile, il figlio Giovanni, che all’epoca aveva 17 anni, si affacciò alla finestra. Assistette sgomento e disperato all’omicidio di suo padre e tentò, invano, di neutralizzare i killer lanciandogli contro il vaso di una pianta.
Le ragioni dell’assassinio furono certamente le denunce che Geraci fece contro i boss di Cosa nostra per il dominio incontrastato nel territorio di Caccamo che veniva considerato la roccaforte dell’allora numero uno della mafia, Bernardo Provenzano e che fu il regno dell’ex superlatitante Nino Giuffrè.
Infatti, già nel 1993, il Consiglio Comunale di Caccamo era stato sciolto per infiltrazioni mafiose. In seguito, il boss Antonino Giuffré, dichiarò che Geraci fu ucciso perché intendeva ripulire il consiglio comunale dal condizionamento mafioso.
Mico Geraci prese di mira alcune anomalie del piano regolatore del comune dove, secondo lui, si nascondevano interessi occulti della mafia. La mafia era ben inserita nella macchina comunale, tanto che controllava l’affidamento degli alloggi pubblici.
Basti pensare che alla guida dei servizi sociali, c’era niente meno che Rosaria Stanfa, moglie di Antonino Giuffré, detto Nino, il ‘Manuzza’, boss latitante e capo del mandamento di Caccamo. Geraci puntò il dito anche contro di lei, invocando la legalità e la trasparenza nella struttura comunale che invece era omertosa e impaurita.
Tentò in solitudine di operare il cambiamento in un territorio dove spadroneggiava il potere della criminalità mafiosa. Tuttavia Geraci era sereno e confidava a tutti con ottimismo. “A Caccamo la mafia non uccide più”.
Bisognerà attendere, appunto, le dichiarazioni di ‘Manuzza’, Nino Giuffrè che nel frattempo si pentì per cominciare le indagini. Il boss mafioso dichiarò di aver più volte respinto la richiesta di assassinare Geraci, nonostante le famiglie del territorio fossero favorevoli.
Dunque secondo la versione fornita da Giuffrè l’omicidio dell’ex sindacalista sarebbe stato anche un messaggio inviato a lui da Bernardo Provenzano e organizzato attraverso la famiglia mafiosa di Spera, che avrebbe messo a disposizione un suo uomo per l’agguato.
Sia Provenzano che Benedetto Spera vennero indagati nel 2002, ma tutto si concluse con l’archiviazione. Dopo 22 anni, l’omicidio dell’ex consigliere provinciale di Caccamo e futuro candidato sindaco di quella che venne definita da Giovanni Falcone la ‘Svizzera della mafia’, resta ancora oggi senza colpevoli.