L’estradizione dalla Francia di alcuni ex brigatisti, ricercati da decenni da parte dei nostri organi inquirenti, ripropone la questione di spiegare ai nostri giovani cosa rappresentò quella dolorosa pagina della nostra Storia, senza eccessive indulgenze. Pochi sono, infatti, i riscontri di carattere sociologico ai quali far riferimento, al fine di inquadrare l’estremismo anarco-insurrezionalista degli anni ’70 del secolo scorso, poiché non si trattò affatto di alcune avanguardie che volevano battersi contro le ingiustizie del sistema capitalistico globalizzato. Quest’ultima è sempre stata una scusante ideologica, uno squallido alibi di matrice giustificatoria dettato dal bisogno pseudointellettuale di creare attorno a quei gruppi di estremisti una sorta di ’alone culturale’ che, in realtà, non ha mai retto il confronto non solo con ogni minima forma di credibilità politica, ma nemmeno con le semplici logiche dell’antropologia comportamentale.
Innanzitutto, l’estrazione sociale dei componenti di quei gruppuscoli è stata, in quasi tutti i casi, il ceto borghese o quello degli ambienti studenteschi caratterizzati da una forte impronta ‘cattocomunista’. Dunque, non si è mai trattato di operai o di giovani lavoratori in rivolta contro lo Stato, secondo la nota formula ’gramsciana’ della rivoluzione, bensì di miserabili avventurieri che coltivarono il sentimento della vendetta, della violenza e della sopraffazione come strumento di lotta.
Altrettanto poco persuasive sono sempre state tutte le letture di matrice ideologica che hanno spesso cercato di ‘disegnare’ questi sovversivi come dei giovani delusi, i quali non riuscirono a intravedere metodi diversi dalla guerriglia urbana, in una società in cui il ricambio politico e l’alternanza democratica apparivano, ieri come oggi, obiettivi assai poco ‘digeriti’ dal nostro ‘sistema–Paese’. Se così fosse, non sorprenderebbe il fatto che formazioni politiche bene organizzate e assai ramificate all’interno del mondo del lavoro – i Partiti della sinistra storica e i sindacati – non sempre siano riusciti a cogliere i diversi cicli di riapparizione del fenomeno, al fine di neutralizzarne la sotterranea ‘continuità di reclutamento’.
L’unica reale spiegazione di tali assurde suggestioni fu quella antropologica: alcune persone smarriscono la memoria verso ogni coordinata culturale di riferimento (intransigentismo radicale, esigenze di una trasformazione dei rapporti sociali e familiari, necessità di nuove forme di educazione civile) nella convinzione che il disordine e la violenza siano l’unica risposta possibile per il cambiamento di questo Paese, rinunciando aprioristicamente a ‘produrre discorso’, limitandosi all’individuazione di alcuni generici nemici (il sistema bancario, le istituzioni rappresentative, l’Unione europea), assoggettando ogni norma di comportamento senza ‘ancorare’ minimamente le proprie scelte e le proprie idee a una qualsiasi giustificazione idealmente nobile.
Le degenerazioni di allora sono perciò ‘fotografabili’ solo attraverso la formula della ‘degenerazione bellicista’. Nell’universo militare non ci si pongono problemi di ‘qualità morale’ delle proprie azioni, poiché non esistono orrori o crudeltà, ma solamente questioni di ‘congruenza’ tra mezzi e fini. Un’etica ‘dimostrativa’ tutta legata a un’ossessiva ricerca di visibilità ‘mediatica’, che diviene preponderante rispetto a ogni ‘etica della convinzione’.
Alla base di quell’ondata di estremismo vi era, invece, un ‘brodo culturale’ totalmente imperniato su un acuto senso di irresponsabilità, sull’idea che si potesse predicare senza agire o agire senza dichiarare le proprie intenzioni, che non si paghi mai per nulla, che non si debba render conto a nessuno del proprio operato. E si è sempre delineata un’abitudine alla violenza nel suo doppio aspetto di affermazione di potere e di riconquista di un’appartenenza comunitaria (fare qualcosa di supremamente proibito significava, per questo genere di individui, imboccare una ‘scorciatoia’ che permetteva loro di allacciare legami che, altrimenti, non avrebbero saputo stringere in altro modo…).
Inoltre, dev’essere assolutamente sottolineata la perversa persuasione, circolante negli anni ’70 ma ancora oggi capillarmente diffusa nelle derive populiste e demagogiche delle ali estreme di destra e di sinistra del nostro sistema politico, che ciò che conferisce ‘forza’ sia l’elevatezza del ‘livello di scontro’: un’overdose di antagonismo che l’anarchico-rivoluzionario deve forzatamente inoculare nei propri atteggiamenti, poiché quanto più si è ‘duri’, tanto più è elevata la possibilità di vincere.
Insomma, le vere cause di origine della lotta armata degli anni ’70 del secolo scorso furono una serie di elementi da sempre sottovalutati dalla nostra classe politica: una mentalità ‘immediatista’; il rifiuto di ogni etica del lavoro; un linguaggio tutto giocato sul ‘massacro’ della sintassi e la ripetizione ossessiva degli slogan; una fragilità psicologica in cui grave si avverte la profonda debolezza verso ogni senso di identità, insieme a una patetica assenza di ‘anticorpi’ contro la paura della morte.
In tutto questo, ogni richiamo al marxismo-leninismo ‘duro’ e ‘puro’, al materialismo dialettico, al pensiero operaio, alla lotta di classe, alla dittatura del proletariato o alla stessa cultura anarchica di ‘bakuniana memoria’ era, allora come oggi, totalmente astratto e ideologico: contarono assai più – e contano ancora oggi – l’assorbimento di precise tendenze degenerative della società contemporanea, l’introiezione di ‘figure di crisi’ rispetto alle quali i comportamenti ‘deviati’ si collocano in un rapporto di ‘specularità’.
Come non riflettere, a proposito di questo genere di irresponsabilità, alla ritirata storica della borghesia italiana, al suo vile ‘ripiegamento’ sul privato, alla propria indifferenza verso i problemi concernenti la cosa pubblica? Come non cogliere, a proposito degli stereotipi militareschi, i nessi esistenti tra il bisogno di una vita ‘elementare’ ed eterodiretta con i vari espedienti messi in atto per ridurre ogni complessità sociale mediante tecniche di controllo e di ‘disinformazione’ dalla precisa discendenza autoritaria? Non ricorda niente, tutto questo? Siamo sicuri che tutto questo non c’entri nulla con l’attuale diffusione di ‘fake news’, col semplicismo riduttivo delle informazioni, con le correlazioni spurie e le dissonanze cognitive?
Come non chiamare in causa, al di là di quanto si creda o si pensi, il modello liberistico ‘mandevilliano’ teorizzato da Milton Friedman? Come mai nessuno riesce a far ‘mente locale’, in proposito di ‘autovalorizzazione’ e di rifiuto di ogni principio ‘laburistico’, a quei rivoli di assistenzialismo e di reddito garantito che son sempre ‘sgorgati’ dal nostro contraddittorio sistema di welfare, che spesso aiuta chi, in realtà, non ne ha bisogno e abbandona al proprio destino il precariato giovanile, nella più totale assenza di ogni meccanismo di ricambio generazionale in tutti i campi e in tutti i settori del mondo del lavoro e delle professioni?
Come non riandare con la mente, in tema di arroganza corporativa, a quei fenomeni di asocialità ricattatoria che dipendono dall’enorme potere posseduto da alcune categorie ‘ristrette’, in un Paese in cui basta uno sciopero delle ferrovie per mettere in ginocchio l’intera cittadinanza? Infine, come non mettere a bilancio, a proposito di afasia e di ‘sterilità valoriale’, il generale impoverimento qualitativo del nostro sistema didattico nazionale?
Diciamocelo chiaramente: sono e sono sempre state queste le vere cause generatrici di intere schiere di ‘giovani senza passato’, i quali proprio non riescono a sentirsi parte di una Storia troppo diversa dalla loro e si ostinano a collegarsi ad alcune tradizioni grazie a un lessico da rivoltosi e a grammatiche iperideologizzate. Si trattò – e si tratta ancora oggi – di persone che non riescono a elaborare un dignitoso ‘sistema di segni’, le cui uniche forme di elaborazione spontanea discendono da ‘zattere ideologiche’ di salvataggio tanto assolute, quanto incerte.
Ecco, dunque, il vero motivo dell’opzione insurrezionalista: l’idea di una rivoluzione, per questi gruppi di rivoltosi è sempre un concetto ‘fotografico’, meramente ‘statico’. Non si tratta di un qualcosa ‘in divenire’, basato su una serie di trasformazioni graduali da incardinare attorno a un disegno concreto di società ‘rinnovata’, bensì dell’organizzazione di un’autonomia di classe da proteggere con la violenza e con le armi.
Se si vuole veramente capire fino in fondo il fenomeno che dilagò allora, insanguinando l’intero Paese per un intero decennio, si deve cominciare a cogliere definitivamente la dimensione ‘nichilista’ e autodistruttiva degli individui che decidono di aderire alle culture della violenza protestataria e ‘antisistema’ in quanto metodo di lotta. Un fattore che pesò in misura assai notevole, tra le loro motivazioni di allora. Non si trattò di un nichilismo ‘drammatico’, derivante da forme di disperazione civile alla Pier Paolo Pasolini, bensì da una ‘supponenza’ di natura etimologica, in cui il ‘nulla’ non deriva mai dall’ablazione di sé, ma da una totale mancanza di ogni ’senso delle relazioni’ che si intrattengono, delle azioni che si commettono, degli ambienti che si frequentano.
Un universo psicologico in cui non solo non è mai esistita alcuna frontiera tra bene e male, ma persino i sentimenti sono sempre banditi, dove capire e osservare la realtà diviene un qualcosa di noioso, di superfluo, di fuorviante. Da tali caratterizzazioni discendeva l’ideologismo ‘dimostrativo’ e la spietata ‘strategia omicidiaria’ delle Brigate Rosse. E fino a quando non riusciremo a elaborare delle risposte soddisfacenti intorno a tali questioni, l’ignoranza, l’astrattezza e la vacua prosopopea continueranno a giocare un ruolo a dir poco ’subdolo’ all’interno della nostra società.