Di Mirko Fallacia
Tra gli appassionati di movimenti politici, l’Italia è da tempo conosciuta come una sorta di laboratorio di esperimenti che poi trapelano nel resto del mondo.
Fu da lì, ad esempio, che il fascismo – inventato da Benito Mussolini – infettò non solo la Germania di Adolf Hitler, ma la Spagna di Francisco Franco e il Portogallo di António de Oliveira Salazar.
Un esempio più recente è il circo politico individuale di Silvio Berlusconi. Mettendo il marketing shock-jock al servizio della politica conservatrice, il magnate dei media e tre volte primo ministro ha dominato l’Italia per decenni e ha prefigurato focolai di stili politici simili da parte del francese Nicolas Sarkozy e dello statunitense Donald Trump.
Oggi l’Italia sta conducendo l’ennesimo esperimento. Il governo guidato da Mario Draghi – un primo ministro a cui è stato attribuito il merito di aver salvato l’eurozona e sostenuto in parte da partiti che un tempo chiedevano a gran voce di lasciarla – potrebbe essere l’espressione più pura della nuova formula politica di quest’epoca: il tecnopopulismo.
Sebbene il termine sia stato originariamente coniato nel 1995 per descrivere il populismo alimentato dalla tecnologia, da allora il tecnopopulismo si è evoluto per assumere un nuovo significato: la miscela post-ideologica di governo tecnocratico e politica populista.
Il mix non è scontato. I tecnocrati (amministratori apolitici senza sangue, che spesso governano in qualità di custode) e i populisti (demagoghi scatenati dalla plebaglia che affermano di parlare per “il popolo”) sono generalmente visti come opposti polari.
Il confronto presidenziale francese del 2017 tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, ad esempio, è stato visto da alcuni come la quintessenza della resa dei conti tra un tecnocrate e un populista.
In un libro recente, tuttavia, i politologi Christopher J. Bickerton e Carlo Invernizzi Accetti sostengono che tecnocrati e populisti in realtà hanno molto in comune: entrambi sono prodotti del dissolversi delle ideologie di destra e di sinistra, causato da fattori tra cui il ruolo diminuito di appartenenza religiosa e il crollo dell’Unione Sovietica, che ha creato l’impressione che “non ci sia alternativa” alla democrazia liberale.
Piuttosto che rappresentare solo una parte della società (come fanno i partiti politici tradizionali), sia i tecnocrati che i populisti affermano di difendere “l’interesse dell’insieme sociale”, scrivono Bickerton e Accetti.
“Nel caso del populismo”, continuano, “questo tutto si diceva essere la ‘volontà popolare’, mentre nel caso della tecnocrazia è il tipo specifico di ‘verità’ politica a cui i tecnocrati affermano di avere accesso in virtù di una loro competenza o perizia”.
Certo, la forma moderna di tecnopopulismo non è nata con Draghi. Anche Berlusconi si è dilettato, dopo che Matteo Renzi si è affermato come suo erede indiscusso.
Presentandosi come un imprenditore di successo in grado di dare risultati dove molti degli screditati partiti politici italiani non potevano, Berlusconi, è stato in grado di attirare dalla sua parte sia socialisti che conservatori. Ma è nell’attuale governo italiano che lo stile politico ha preso il suo posto.
Draghi, il 74enne ex presidente della Banca centrale europea (BCE), è per molti versi il tecnocrate per eccellenza. Famoso per aver fermato una potenziale corsa al debito della zona euro impegnandosi a fare “tutto il necessario”, è stato indicato dagli esperti italiani per un ruolo di custode molto prima che si presentasse una crisi che richiedeva la sua mano ferma.
Il parlamento italiano, composto da un caleidoscopio di partiti politici, potrebbe non essere post-ideologico, ma è così venale che potrebbe trasformarsi all’evenienza.
Così, quando Draghi – i cui accoliti avevano ripetutamente smentito le voci che voleva diventare primo ministro – ha alzato la mano per prendere le redini, il parlamento italiano non ha avuto problemi a mettersi in fila dietro di lui. Adesso governa con l’appoggio di ogni partito politico – compresi Lega e 5 Stelle – tranne, i postfascisti, di Fratelli d’Italia e i comunisti di Sinistra Italiana, che restano i soli all’opposizione.
In carica, Draghi ha tratto la sua legittimità dal lato tecnocratico del libro mastro, presentandosi come “eroe” e garante responsabile dell’Italia che combatte la pandemia, che riforma l’economia e si prepara a spendere centinaia di miliardi di euro in prestiti e sovvenzioni sostenuti dall’Unione Europea.
Ma non si tira indietro quando si tratta di schierare l’occasionale fioritura populista. Come presidente della BCE, a volte poteva essere visto volare a Francoforte in classe economica. In qualità di vicepresidente di Goldman Sachs a Londra, è stato possibile incontrarlo in metropolitana.
E come primo ministro, ha rifiutato di prendere il suo stipendio di € 110.000, una mossa che è stata descritta come un “gesto populista”, dato che aveva guadagnato quasi € 600.000 nel 2019, la stragrande maggioranza dei quali dalle pensioni statali dai suoi precedenti lavori come direttore generale del Tesoro e governatore della Banca d’Italia. Anche se i funzionari italiani sottolineano che Draghi non ha pubblicizzato il fatto che ha rifiutato il suo stipendio.
Anche se rinunciare ad un doppio o ad un triplo stipendio versato dai contribuenti è sempre una cosa decorosa, c’è da dire che: sono anni che si richiedono leggi che precludano l’accumulo di tanti incarichi, e conseguentemente, tante pensioni pubbliche, da parte di una sola persona.
È sicuro dire che, come la precedente progenie politica del paese, è improbabile che il tecnopopulismo rimanga confinato alla penisola italiana. Alcuni, infatti, hanno già indicato Macron come possibile esponente del movimento.
Ex banchiere d’investimenti che, non essendo mai stato eletto, è stato nominato ministro dell’economia favorevole alle imprese prima di ritirarsi per candidarsi alla presidenza, Macron sembra uscito dallo stampo tecnocratico.
Macron si è messo in evidenza per aver servito in un governo socialista, fatto una campagna come “radicale centrista” e infine si è spostato verso il centrodestra durante il suo mandato.
Per Draghi, il tecnopopulismo è invischiato in quella che vede come la sua missione: utilizzare i soldi per il recupero del coronavirus per aiutare a dare una svolta all’economia italiana e portare a termine con successo la decisione dell’UE di mostrare solidarietà emettendo debito garantito dall’intero blocco.
Il denaro che è stato affidato, prima a Conte e dopo a Draghi, gli ha permesso di creare un nuovo marchio di politica ‘post-politica’, “perché l’accento è posto sulla riconciliazione anziché sul conflitto”, ha affermato Accetti, uno degli autori del libro sul tecnopopulismo.
Nell’attuale contesto italiano, i partiti politici non sono male. Sono irrilevanti. A ottobre, quando la Lega ha avuto qualche problema con una proposta del governo sulle tasse, Draghi ha semplicemente chiarito la sua intenzione di andare avanti.
“Draghi è arrivato in Italia con questi soldi nello zaino [che] sono diventato lo strumento per il quale è stato in grado di assorbire il conflitto”, ha detto Accetti.
La domanda è quanto tempo può durare questo equilibrio. Il prestigio personale di Draghi e l’accentramento dell’autorità nell’ufficio del primo ministro durante la pandemia gli hanno conferito un potere che in pochi hanno avuto in precedenza nella storia italiana moderna.
Nessuno dei membri scontenti della coalizione di Draghi probabilmente farà una mossa mentre lui guida il paese. Ma il governo potrebbe complicarsi la vita eleggendo, Draghi come presidente della repubblica all’inizio del prossimo anno, lasciando il posto al suo ministro del Tesoro, Daniele Franco, a subentrando come primo ministro. Ma è difficile che ciò accada, a meno che Lega-Pd-FI-M5S non vogliano vedersi andare in frantumi il progetto iniziale: utilizzare i soldi del Pnrr per avere un tornaconto elettorale.
La presidenza italiana non è priva di poteri, ma è soprattutto una carica cerimoniale. E senza il tecnopopulista per antonomasia al timone del governo, la tensione intrinseca nella nuova formula politica italiana potrebbe rapidamente emergere in superficie.
Come ha sottolineato il filosofo politico tedesco Jan-Werner Müller, un’altra cosa che accomuna tecnocrati e populisti è la convinzione che esista un solo modo giusto di fare le cose.
Laddove i populisti affermano di rappresentare “l’unica autentica volontà popolare”, i tecnocrati si presentano come conoscenti “l’unica risposta razionale alle sfide politiche”.
“Non essere d’accordo con un populista significa essere “dichiarato traditore del popolo”, mentre il disaccordo con un tecnocrate significa che “ti verrà detto educatamente che non sei abbastanza intelligente”, scrive Müller.
Mantenere queste due forze allineate richiede qualcuno che possa sostenere che la volontà popolare e la risposta razionale sono la stessa cosa, impresa mai facile, soprattutto nel laboratorio politico italiano.