Dopo che la mafia uccise Beppe Montana, l’agguato mafioso a Ninni Cassarà e a Roberto Antiochia in quella terribile estate del 1985 divenne una sfida drammatica alle forze dell’ordine, agli investigatori e al pool antimafia.
Infatti, lentamente, la parte sana dello Stato reagì e si prepararono le “carte” giudiziarie per lo storico maxiprocesso a Cosa Nostra che rappresentò il primo colpo letale all’organizzazione criminale.
Oggi resta il ricordo vivido e struggente di Ninnì Cassarà, che aveva 38 anni, quando fu colpito a morte dalla squadra di fuoco dei killer davanti al condominio in cui abitava.
Insieme a Cassarà rimase ucciso anche il valoroso poliziotto Roberto Antiochia che aveva appena 23 anni e che nel giugno 1983 lavorava presso la squadra mobile di Palermo con Beppe Montana in delicate indagini sull’associazione mafiosa Cosa Nostra.
Dopo l’omicidio di Montana venne trasferito a Roma e decise di partecipare alle indagini a fianco di Ninni Cassarà. Ninni Cassarà ricoprì la carica di vice-questore aggiunto e vice-capo della Squadra Mobile di Palermo a capo della sezione investigativa.
Scelse la polizia a 25 anni poiché era soprattutto un uomo d’azione dotato di tenace intraprendenza rinunciando ad una possibile carriera di magistrato.
Ninni Cassarà andò a dirigere giovanissimo la Squadra Mobile di Trapani a 28 anni e, infatti, si distinse immediatamente per il suo notevole dinamismo e per la sua intelligenza investigativa nel contrasto alla criminalità organizzata e mafiosa.
Nel 1980 fu protagonista di una clamorosa perquisizione nel circolo Concordia della Trapani “bene” e l’allora questore Giuseppe Aiello per “premio” lo rimosse dalla guida della Squadra Mobile su pressione dei notabili locali.
Cassarà fu trasferito a Palermo e per un breve periodo svolse servizio alla Squadra omicidi. Ma venne subito assegnato alla sezione investigativa dove Cassarà si impegnò intensamente trasformando la sezione in un ufficio che si occupava solamente di mafia, scegliendo personalmente gli uomini di fiducia che ne avrebbero dovuto far parte.
La situazione logistica e strutturale della sezione era inefficiente e carente, con lacune spaventose. Non vi erano mezzi sufficienti per le indagini, persino le auto per effettuare le inchieste venivano spesso fornite da parenti e amici.
Cassarà, spesso si fece prestare la 127 di suo padre in modo da girare senza pericolo nelle zone di Palermo alla ricerca di latitanti.
Vi era anche un poliziotto, Francesco Accordino della sezione omicidi, che mimetizzava le auto, con targhe di auto mandate al macero.
Ninnì si impose con un metodo di lavoro davvero innovativo per l’epoca e, infatti, ogni squadra avrebbe indagato autonomamente secondo gli incarichi ricevuti, ma tutto sarebbe stato condiviso con le altre squadre.
Era la riproduzione del metodo del pool antimafia dei magistrati della procura di Palermo riprodotto all’interno della Polizia per consentire in tal modo pieno coordinamento ed efficacia di risultati.
Si svolgevano delle riunioni mattutine in cui ciascuna squadra riferiva delle indagini del giorno precedente e si facevano circolare tutte le informazioni di cui si veniva in possesso fino al minimo particolare.
Nulla venne tralasciato e tutti gli indizi, anche quelle più irrilevanti, vennero seguiti nelle indagini. Dopo l’omicidio del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa giunse alla Squadra Mobile di Palermo Beppe Montana, che a Catania, aveva arrestato alcuni pericolosi boss, e, così, tra i due investigatori si stabilì una forte intesa umana e professionale.
Montana sulla base della sua esperienza, fu subito convinto che i mafiosi latitanti non lasciassero mai il territorio di appartenenza.
In tal modo si decise di creare una “Squadra Catturandi”, scegliendo in modo accurato gli uomini che ne avrebbero fatto parte.
La Catturandi costituì la sesta sezione della Questura di Palermo, mentre la quinta era l’Investigativa. Gli uffici di Cassarà e Montana furono quasi vicini e questo contribuì a sviluppare una proficua e intensa collaborazione tra le due sezioni.
Questi eroici poliziotti erano sorretti da entusiasmo e fiducia, da vincoli di amicizia profonda e da elevati valori morali. Si crearono anche solidi rapporti con il Nucleo Operativo dei Carabinieri, la sezione anticrimine guidata da Angiolo Pellegrini e, infine, con l’ufficio istruzione guidato prima da Rocco Chinnici e poi da Antonino Caponnetto, che in seguito lavorarono in perfetta sinergia con il pool antimafia in cui spiccavano le figure di Falcone e Borsellino.
Cassarà ebbe già modo di conoscere Giovanni Falcone a Trapani e fu sempre al suo fianco nell’indagine PizzaConnection, che svelò l’enorme traffico di stupefacenti tra gli USA e la Sicilia.
In tali operazione furono arrestati diversi boss italo-americani e mafiosi siciliani. Cassarà redasse con Angiolo Pellegrini il famoso rapporto “MicheleGreco + 161”, che poi fecero dattiloscrivere da un agente, dato che da Roma non arrivavano i computer richiesti per l’immane lavoro, che durò 44 notti.
Cassarà si rassegnò all’idea di non ricevere aiuti e supporti e finì per chiedere a colleghi e cronisti di sottoscrivere una carta di credito della Diners, la quale ogni dieci iscritti regalava un computer, il primo dei quali arrivò ai primi di agosto del 1985, proprio qualche giorno prima del 6 agosto del 1985 quando Cassarà venne ucciso.
Al processo di Caltanissetta per la morte di Rocco Chinnici, inoltre, ebbe modo di confermare, e lo stesso fece Angiolo Pellegrini, la circostanza che il capo dell’Ufficio Istruzione stesse per emettere dei mandati di cattura nei confronti dei cugini Salvo.
Nel frattempo l’amico e collega Montana riportò notevoli successi investigativi che segnarono la sua condanna a morte e la sera di domenica 28 luglio 1985, fu freddato da quattro colpi in faccia sparati con proiettili ad espansione a Porticello, frazione marina del comune di Santa Flavia, in provincia di Palermo.
In quell’occasione si scatenò una rabbia nei poliziotti e la scarsa lucidità portò a consumare un’altra tragedia. Un testimone vide una Peugeot 205 azzurra usata dai killer, che risultò poi essere intestata al calciatore del Pro Bagheria Salvatore Marino.
Durante la perquisizione a casa del calciatore gli agenti ritrovarono 34 milioni di lire in contanti e il Marino affermò che erano stati dati dalla sua squadra, mentre, invece, i dirigenti della squadra smentirono la circostanza.
Il calciatore si presentò con il proprio avvocato in Questura, andando però alla sezione anti-rapine e là, nel tentativo di estorcergli informazioni, venne torturato e non sopravvisse all’interrogatorio.
Sull’onda dell’indignazione popolare l’allora ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro sollevò dall’incarico con apposito decreto il capo della Squadra Mobile Francesco Pellegrino, il Capitano dei Carabinieri Gennaro Scala e il dirigente della sezione antirapine Giuseppe Russo.
Ritornando a quei drammatici giorni immediatamente successivi alla morte di Montana, si avvertì netta la sensazione che Cassarà venne lasciato solo.
Due giorni dall’omicidio di Montana, Cassarà annunciò l’arrivo da Roma di Antiochia e disse che avrebbe potuto contribuire alle indagini sulla morte di Montana, poiché lo stesso Antiochia conosceva le ipotesi investigative di Montana avendo collaborato con lui per due anni.
Ma nessuno affidò delle indagini al giovane agente e Cassarà cominciò a prendere consapevolezza di essere “un morto che cammina”.
In quei giorni prima dell’agguato mortale molti agenti andarono in ferie, mentre Antiochia, nonostante non si trovasse in servizio, decise di rimanere a Palermo per scortare l’amico Ninni.
Si presero mille precauzioni per uscire sempre ad orari diversi dalla Questura e per il rientro a casa con cenni da parte della moglie di Cassarà per dare via libera senza che ci fossero figure sospette sulla strada.
Tuttavia ciò non bastò e, quel 6 agosto 1985, Cosa Nostra preparò tutto alla perfezione. Con cinica ferocia e determinazione, i killer, un gruppo di nove uomini armati di Kalashnikov, si erano appostati alle finestre dell’edificio proprio di fronte al palazzo dove abitava il vice questore.
Verso le 15.30, l’Alfetta bianca blindata arrivò al civico 77 di via Croce Rossa e in quel momento si scatenò il fuoco degli uomini di cosa nostra che spararono oltre 200 i colpi di kalashnikov.
Ad accompagnare Cassarà a casa vi erano Natale Mondo, che si salvò gettandosi sotto l’auto, mentre Giovanni Salvatore Lercara, riuscì a salvarsi solo perché scivolando batté la testa contro il gradino del portone, mentre Roberto Antiochia venne ucciso proprio nel vano tentativo di fare scudo con il suo corpo a Cassarà, sceso dall’auto per raggiungere il portone di casa.
Pochi istanti dopo cessò di vivere sulle scale del condominio tra le braccia della moglie Laura che era corsa giù insieme alla figlia dopo aver assistito dal balcone a quella tempesta di fuoco. L’emozione e la protesta montò nel Paese e venne denunciata da più parti l’inerzia dello Stato.
Ad Agrigento il personale della questura si auto-consegnò in blocco, a Roma 700 agenti rifiutarono il rancio per due giorni, mentre a Palermo 200 agenti chiesero il trasferimento.
Il Ministero degli Interni inviò così 800 tra poliziotti, carabinieri e finanzieri per la lotta alla mafia. Secondo le indagini che fece Giovanni Falcone anche per i successivi accertamenti in sede giudiziaria, Cassarà e i suoi uomini di scorta furono traditi da una o più “talpe” della questura che seppero in anticipo l’ora della sua partenza e comunque si trattò di un agguato preparato da mesi.
Nel 1989 iniziò il processo “Michele Greco + 32”, delle indagini sulla morte di Montana, Cassarà e Antiochia. Fu emessa una sentenza di primo grado nel 1995 che condannò i principali esponenti della Commissione (Greco, Riina, Provenzano, Brusca, Madonia) all’ergastolo in qualità di mandanti, con sentenza poi confermata nel 1998 dalla Cassazione.
Ninni Cassarà e Beppe Montana, insieme a Roberto Antiochia, furono legati nell’orribile sorte e i mafiosi sicuramente nel loro compito omicida furono agevolati da vili traditori mai svelati.