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Gramsci, Pertini e la “tomba di Turi”

by Sabino De Nigris

Nel tormentato viaggio da Roma a Turi, dopo essere stato condannato dal Tribunale Speciale, a vent’anni, cinque mesi e venti giorni, Antonio Gramsci sopportò per undici giorni forti dolori fisici che lo segneranno nel fisico per il resto dei suoi giorni.

 Nel corso della traduzione in treno, in un caldissimo luglio del 1928, al capo del PCd’I, ammanettato, chiuso in un cubicolo, si manifestò “l’herpes zooster” che lo costrinse a interrompere la traduzione e a essere “ricoverato” in sudici cameroni di transito a Foggia, senza alcuna cura sanitaria.   

Sulla propria pelle Gramsci cominciava a sentire operante la volontà del pubblico ministero  Michele Isgrò il quale aveva sentenziato che, durante le udienze del “processone”, “questo cervello non deve pensare per vent’anni”.

Giunto a Turi, Gramsci venne rinchiuso in una cella con altri detenuti. La sua matricola era la numero 7047.

Nel comunista sardo rimase il dubbio che non aveva avuto dal partito la copertura per l’espatrio, pur ammettendo egli stesso che, essendo gobbo e di bassa statura, era facilmente rintracciabile in qualunque luogo. Era amareggiato per come in Italia si stava affermando il fascismo.

Sottoponendo il  fisico a lunghissime ore di lavoro, fumando molte sigarette “macedonia” e alimentandosi in modo scorretto, a trentacinque anni era deperito e depresso.

Così, mentre le sue condizioni fisiche peggioravano sempre più, per la sanità nelle carceri vigeva il regolamento adottato dal governo piemontese nel 1862, aggiornato nel corso dei decenni. Ma ben poco era cambiato nella prassi: l’indiscusso referente era il direttore che manteneva la disciplina e “il detenuto era soggetto all’obbligo del silenzio continuo”. Eventuali concessioni erano elargite con parsimonia. Per Gramsci ci furono sempre ostilità manifestate dal direttore, dal personale del carcere, dagli ispettori dell’Ovra. Tutti episodi trascritti con cautela nelle lettere alla cognata e al fratello. Gramsci, salvo le visite nel 1933 del prof. Arcangeli e dello psichiatra Filippo Saporito, il controllo del suo stato di salute fu garantito da medici del posto nei 64 mesi di detenzione.

I medici turesi che si occuparono del capo comunista furono tre, il medico condotto e due suoi sostituti. E il giudizio sul loro comportamento è alquanto complesso.

Quando il presidente della Repubblica Sandro Pertini scese in Puglia per incontri istituzionali, il 2 marzo 1980, volle rivisitare il carcere di Turi dove era stato recluso con Antonio Gramsci per quasi un anno.

Il comune di Turi gli conferì la cittadinanza onoraria. Pertini ringraziò un uditorio di migliaia di cittadini  con un memorabile intervento. Il presidente con incisive frasi legittimò figure di consulenti dell’amministrazione carceraria e disse: “Devo ricordarlo con grande piacere, il medico del carcere di questa terra delle Puglie. Molto buono, molto umano con noi. Si chiamava Resta…”.

E continuando, l’irriducibile antifascista socialista ricordò che “Gramsci era molto ammalato e Resta cercava di curarlo. Ricordo che ebbi occasione di parlare con lui e di dirgli ‘guardi che con il suo ritegno, Gramsci non le vuole dire tutta la verità, ma a me ha detto che questa notte ha sputato sangue ripetutamente’. E lui disse: ‘Farò di tutto per curarlo, ma è difficile. Ha una malattia tale che necessiterebbe il ricordo in una clinica, in un sanatorio. Qui le cure sono quel che sono’”.

Il secondo medico che si occupò di Gramsci fu Alfredo Cisternino. Personaggio discusso, nell’introvabile pamphlet del giornalista Domenico Zucaro dal titolo “Vita dal carcere di Antonio Gramsci” (Edizioni Avanti! 1954) l’autore descrive Gramsci e Pertini, divenuti amici nella “tomba di Turi”, entrambi colpiti da serie malattie polmonari e curati a loro giudizio non efficacemente. Nell’opuscolo di Zucaro si legge che “con il dott. Cisternino, tuttora medico del penitenziario, ho avuto subito la sensazione che non mi sarebbe andata molto bene”.

Il terzo sanitario, del quale si fa menzione breve nei racconti, ebbe un’attività al pari degli altri medici. Era il dott. Beniamino Orlandi, più giovane rispetto agli altri colleghi, celibe e conosciuto ampiamente anche per un’esperienza politica in corso. Quando Gramsci fu detenuto, Orlandi era podestà di Turi ma continuò a esercitare la professione.

  

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