La fermata di numerose attività non essenziali, la forzata immobilità nelle proprie residenze, ha generato uno sconquasso economico, di cui eravamo certi sin dall’inizio.
Il contraccolpo della finanza non dovrebbe preoccuparci, ma come dice un caro amico industriale, è ora che il mondo finanziario partecipi in modo incondizionato alla ricostruzione.
E’ chiaro che i “Coronabond” costituiscono un importante prestito per le casse dello Stato oramai esangui, nonostante le dimensioni del peso fiscale sui cittadini.
E in tal proposito, Monti ha giustamente puntualizzato che tale emissione non deve avvenire con una perdita di sovranità fiscale a vantaggio delle istituzioni europee, della Bce per essere chiari.
Dopo la finanziarizzazione forzata del sistema Italia, la cessione delle aziende di Stato, l’eventuale trasferimento totale o parziale della nostra sovranità fiscale, impedirebbe, come lo hanno impedito le privatizzazioni, la possibilità di saldare il forte debito contratto.
Con l’ipotesi futura, quanto inevitabile, di un default dello Stato e dei conseguenti interventi da parte dell’Ue, che già tutti ben conosciamo, Grecia docet, lo smantellamento dei diritti dei lavoratori sarebbe effettivo.
Ci sfugge invece il motivo per cui il Governo e la maggioranza che lo sostiene, non operino un importante raccolta presso le aziende in genere, e in particolare da quelle grandi aziende partecipate dallo Stato che dichiarano avanzi miliardari.
Non comprendiamo perché i sindacati, come prontamente hanno fatto in occasione di altre calamità naturali, non si organizzino per operare una raccolta volontaria, presso i dipendenti in servizio e correntemente remunerati dalle aziende medesime, pubblica amministrazione inclusa.
E’ necessario offrire ai grandi risparmiatori italiani un’opportunità allo scopo di tenere in piedi le attività del Paese, inducendoli a investire parte del loro risparmio in buoni emessi dal tesoro, allo scopo specifico di far fronte alla spaventosa crisi che ci sta travolgendo.
Così come è necessario intervenire sulla Sanità privata, per chiedere una partecipazione sostanziale all’emergenza, con effetti impositivi e non eludibili.
Sappiamo che i conti e la ricchezza dei cittadini, delle aziende di questo nostro Paese, è sotto l’osservazione minuta della Guardia di Finanza.
Esistono le dichiarazioni dei redditi di professionisti, commercianti, partite Iva, di tutti quei soggetti che non possono più far fronte agli oneri fissi di gestione dell’attività sospesa e che da essa traggono sostentamento.
Sanno bene le istituzioni quanto devolvere gradualmente, e su base reddituale a chi deve necessariamente restare inattivo per l’emergenza sanitaria in corso.
Gli indicatori sono conosciuti e non possono essere ridotti nei loro valori assoluti, per ciò che questi rappresentano per il sostentamento delle persone.
Troviamo un’intesa senza dover arrivare a quella soluzione forte e necessaria, cui nel 1992 giunse il Governo Amato, operando un prelievo diretto dai conti bancari dei cittadini.
Sappiamo essere una possibilità non tanto remota, che però ricadrebbe ancora una volta sui cittadini e aziende, che fiscalmente già partecipano regolarmente al sostentamento del Paese, escludendo di fatto un’ampia fascia di ricchezza non censita.
Abbiamo ingenuamente sperato che tutti i percettori dell’otto e del cinque per mille, prontamente, restituissero l’intera cifra donata loro dai cittadini.
Siamo rimasti delusi se non per alcuni, che hanno già esplicitamente e saggiamente rinunciato.
Perché se è vero che lo spirito e le idee hanno bisogno di parole e gesti a volte plateali, è ancor più vero che quegli stessi soggetti, remunerati su base volontaria dai cittadini, debbano avvertire l’obbligo di partecipare al disastro umano in corso, con l’apporto materiale cui l’otto o il cinque per mille rende loro possibile.