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Democrazia e lavoro, il banco di prova del XXI secolo

by Maurizio Ciotola

Alla fine degli anni ottanta nei Paesi liberi e democratici, si comprese chiaramente che il tempo libero a disposizione degli individui, avrebbe costituito un beneficio generale, in termini di efficienza e benessere sociale, oltreché una consistente risorsa economica.

Gran parte del sistema economico occidentale sviluppò investimenti ad ampio spettro, volti allo sfruttamento di tale risorsa, che si prospettava disponibile sempre più su ampia scala.

Un ruolo centrale avrebbe avuto la già fiorente macchina turistica, ovviamente lo sport e il suo grandissimo indotto, come le iniziative economico-culturali, non sempre di pregio assoluto, ma comunque apprezzabili sul piano della crescita culturale generale.

Uno sviluppo e un’attenzione che puntava almeno a due obiettivi, uno di propaganda politica e l’altro più pragmaticamente, contingente allo sfruttamento delle risorse in eccedenza.

La propaganda politica proiettata oltre “cortina”, serviva a mostrare il rigoglioso benessere delle socialdemocrazie occidentali, che poi risultò vincente.

Mentre il secondo obiettivo fu quello di avviare un ulteriore moltiplicatore economico, per quella parte dei risparmi la cui sicurezza, figlia di una stabilità economica, rendeva eccedenti.

Una economia in cui la garanzia dei contratti equi e l’intervento sul territorio, era regolato da normative non liberiste.

La riduzione dell’impegno lavorativo in termini di tempo, vista nell’ottica della piena occupazione, all’alba dell’incalzare tecnologico di sistemi informatici e automatismi, costituì l’orizzonte evidente di una parte della sinistra progressista occidentale, quanto di quel sindacato ancora presente negli uffici e nelle fabbriche.

Dalle mitiche quaranta ore lavorative, nell’ambito dell’industria, si riuscì a passare alle trentotto ore, abbattendo quel muro di opposizione datoriale, che si opponeva al mantenimento di una identica retribuzione salariale, di fronte a una riduzione oraria delle prestazioni.

Di fatto nella maggior parte dei casi non solo è stato conservato il reddito, ma questo fu accresciuto significativamente, in virtù di un’illuminata e lungimirante comprensione delle ricadute economiche generali, di cui gli stessi datori di lavoro avrebbero goduto o saputo cogliere.

Altresì la risposta di un’efficienza superiore alla precedente, rese esplicita l’insussistenza di una relazione diretta tra tempo di lavoro e produttività.

Ma il secolo breve terminò aprendo una frattura nelle socialdemocrazie occidentali, del cui ampliamento è ed è stato testimone il secolo corrente.

L’arretramento delle tutele aziendali e dell’affidamento degli appalti, unitamente al congelamento di gran parte dei diritti umani, travolsero idee e valori.

Un volgere in totale contraddizione con le lotte popolari e politiche che, nel XX secolo, furono orientate a estendere alla popolazione dell’intero Pianeta, un sistema di tutele sociali e una politica democratica.

Nel veloce abbattimento dei confini territoriali, prima vincolati ai due blocchi predominanti, l’economia Occidentale ha stravolto il suo impegno sul territorio, per delocalizzare laddove le protezioni salariali e i diritti erano e sono assenti.

L’adesione incondizionata al leitmotiv liberista, ha condotto le imprese a raggiungere un’efficienza del sistema produttivo, basandosi sulla banale riduzione del costo del lavoro, piuttosto che sulla qualità del prodotto finale e del lavoro medesimo.

In una pura e mediocre operazione contabile, in prima battuta, hanno operato una compressione del reddito finale, a parità di impegno temporale.

Non fu sufficiente a garantire la permanenza degli impianti di produzione, delle industrie manifatturiere o di quelle del terziario e del terziario avanzato.

Per cui la “produttività” venne garantita, in parte e non per lungo tempo, con un’estensione oraria dell’impegno lavorativo sottopagato, in piena contrapposizione con la visione economica di pochi anni prima.

La devastazione che è conseguita è sotto gli occhi di tutti, per quanto riguarda la povertà e la disoccupazione registrata.

Dati con cui la stessa ISTAT, grazie a formule di rilevamento sempre più astratte e inadeguate, ha saputo ignorare in assoluta dipendenza con la politica dei governi.

Per quanto la politica e le istituzioni tentassero di rendere invisibile la drammatica realtà, le inchieste giornalistiche resero, e purtroppo rendono sempre più evidenti le discrepanze con quella falsa verità.

Se il salto di paradigma economico, che stiamo compiendo più o meno coscientemente, verrà gestito in un’ottica di regolamentazione del lavoro neoliberista, simile all’attuale, condurrà a una tragedia economica e sociale, propria delle condizioni belliche già vissute nella prima fase del XX secolo.

Contrariamente, la auspicabile riduzione dell’orario di lavoro e successivamente, la definitiva archiviazione di un sistema imperniato sul riconoscimento delle prestazioni lavorative a ore, aiuteranno a incrementare le risorse umane, necessarie alle aziende per sostenere il loro ciclo produttivo.

Una riduzione graduale fino al salto definitivo, in cui la prestazione oraria, già indeterminata in termini temporali nel terziario e nel terziario avanzato, non costituirà più il metro di misura delle retribuzioni.

Abbiamo una parte del Paese immersa in un pensiero altisonante distante dalla realtà.

Una parte del Paese che, nei fatti, non opera per la risoluzione delle problematiche del lavoro.

Forse perché distante da esse, probabilmente perché si nutre di un ricco autocompiacimento, cui fanno eco la politica e i media.

Un esercizio attraverso cui, alcuni studiosi, vestono di scienza argomentazioni decisamente più populiste, di quelle pubblicamente dichiarate tali.

In un mondo in cui la tecnologia aiuta l’umanità a migliorare se stessa, i suoi progetti produttivi e di benessere, è inevitabile che un insieme di lavori più o meno meccanici, più o meno automatici, oggi svolti dagli esseri umani, saranno sottratti agli stessi liberando creatività e intelletto.

Ma questo passaggio non potrà avvenire in modo naturale, perché non è naturale il sistema economico produttivo in cui operiamo. Anch’esso è “figlio” di decisioni umane, con le quali è stato messo in piedi nei secoli che ci hanno preceduto.

L’attenuazione della inevitabile deriva sociale e la riuscita di questo salto paradigmatico, costituirà in questo secolo il passaggio centrale per qualsiasi civiltà democratica.

Per le democrazie esistenti questo passaggio dovrà ritenersi il vero banco di prova, forse l’ultimo, per governare e superare il XXI secolo, senza scomparire e cedere a totalitarismi più o meno espliciti.

Una prova che verterà sulla tenuta di quella irrinunciabile costante fondamentale, da cui sono caratterizzate e contraddistinguono le democrazie: il riconoscimento dei diritti umani universali.

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