Il burrascoso ritiro dall’Afghanistan e il progressivo disimpegno statunitense impongono all’Europa di ripensare la propria politica estera e di difesa. Gli eventi delle ultime settimane stanno alimentando il dibattito su come l’Unione possa affermarsi come attore geopolitico di peso, facendo corrispondere al suo peso economico, quello diplomatico e potenzialmente militare. L’altro ieri l’Alto rappresentante Ue per la Politica estera, Josep Borrell, ha dichiarato che si sta lavorando ad una proposta per istituire una forza militare comune, anche se “non c’è ancora unanimità” tra gli stati membri. Nelle stesse ore, il premier italiano Mario Draghi incontrava a Marsiglia il Presidente francese Emmanuel Macron per fare il punto sull’Afghanistan e i rifugiati: Macron si è schierato a favore della proposta italiana di coinvolgere il G20 – Draghi è in prima linea come presidente di turno del summit – in un coordinamento internazionale sul tema. Il rinnovato allineamento tra Roma e Parigi – anche alla luce della delicata transizione politica in corso a Berlino – potrebbe ottenere la spinta decisiva dalla presidenza di turno francese dell’Ue a gennaio. L’Ue ha “imparato a proprie spese” dalla crisi in Afghanistan la necessità di costruire le proprie capacità di difesa, ha dichiarato al Financial Times Thierry Breton, commissario per il mercato interno, che la difesa comune “non è più facoltativa” e che l’UE deve diventare in grado di gestire missioni militari in “piena autonomia”. Quando si tratta di difesa comune però, l’Unione ha una lunga storia di false partenze e sono in molti a chiedersi se questa volta sarà quella buona.
La forza di difesa europea non va intesa come un’alternativa alla Nato. Si tratta di mettersi nelle condizioni di intervenire quando ce ne sia bisogno. Nel complesso, i 27 spendono per la difesa tanto quanto Russia e Cina, eppure l’Unione manca del coordinamento e delle capacità logistiche di base per sostenere operazioni all’estero senza l’aiuto degli Stati Uniti. Per questo nei circoli europei, si va facendo strada l’ipotesi di istituire una forza di reazione rapida di almeno 5mila unità, da aumentare all’occorrenza. Ma sul progetto pesano le distanze tra i paesi membri, a partire dalle nazioni baltiche, legate a doppio filo con la Nato, e lo scetticismo di alcuni paesi dell’Europa orientale. A sostenere con forza l’iniziativa è invece la ministra della Difesa tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer, che ha invitato a fare ricorso all’articolo 44 dei Trattati. Si tratta della norma che consente a un gruppo di stati che lo desiderano di mettersi insieme e di andare avanti a maggioranza, senza la necessità di raggiungere un consenso unanime la cui mancanza, sempre più spesso, paralizza la politica estera europea. La procedura consentirebbe al gruppo di ‘volenterosi’ di utilizzare la bandiera dell’UE, ma è comunque sottoposta ad un’approvazione all’unanimità. Il progetto di una forza di difesa comune sarà presentato intorno alla metà di novembre. Toccherà poi alla Francia, presidente di turno da gennaio – che è l’unico paese Ue a sedere al Consiglio di Sicurezza Onu e negli ultimi anni tra i paesi più vocali riguardo alla necessità di un ripensamento dell’Alleanza Atlantica – il compito di realizzarla.
Intanto, procedono gli sforzi italiani per un G20 speciale sull’Afghanistan. L’intenzione della diplomazia italiana è quella di includere i principali attori coinvolti nella crisi in corso nel paese, in primis Cina e Russia, per trovare soluzioni condivise alle sfide comuni che seguiranno il ritorno dei Talebani a Kabul. A poche settimane dalla fine dell’era Merkel, l’intesa tra il premier italiano e il presidente francese assume un rilievo particolare, una sorta di ultima chance per costringere l’Unione a fare quel salto che ritarda da tempo, e che alla luce degli eventi sembra ormai sempre meno rinviabile. Nei colloqui con il premier italiano, Macron ribadisce che ci sono “lezioni da trarre” da quanto avvenuto a Kabul. Ovvero che per garantire la sua difesa, l’Europa non può più contare solo sull’ombrello della Nato, considerato peraltro che al suo interno ci sono paesi che, come la Turchia, hanno interessi strategici ben distanti da quelli dei 27. Il presidente francese insiste sulla necessità di diffondere, nei prossimi mesi, la consapevolezza di un’urgenza di cui la Francia è alfiere da tempo: quella di “un’autonomia strategica” dell’Ue.
“Non posso assicurarvi nulla”, ha affermato Josep Borrell, il massimo diplomatico dell’UE, in una conferenza stampa dopo il vertice informale dei ministri della Difesa in Slovenia. Borrell stava rispondendo a chi gli chiedeva se l’attuale dibattito sulla creazione di una forza UE non sarebbe finito come quelli passati. Nello specifico, la domanda si riferiva a un accordo stipulato dai leader dell’UE nel 1999 per sviluppare una forza militare da 50.000 a 60.000 soldati entro il 2003. Un impegno che non si è mai concretizzato. Eppure, nell’idea dei padri costituenti dell’Europa, l’idea della Comunità europea di difesa c’era e rispondeva alla necessità che i popoli europei non si facessero più la guerra e potessero difendersi, insieme, contro eventuali nemici. Ad ostacolarla, fino ad oggi, è stata la riluttanza ad aderire ad un principio cardine dell’Unione: la cessione di sovranità nazionale a vantaggio di una sovranità comune europea. Come già fatto in altri ambiti, come quello economico con la moneta unica, ed ora, tra mille resistenze, si cerca di fare con le politiche fiscali, e la mutualizzazione del debito. Forse la soluzione alla crisi del ‘modello europeo’ sta proprio in questo: allontanarsi dagli egoismi tornando ai princìpi che hanno garantito al Vecchio Continente più di settant’anni di pace.
L’intenzione di Borrell di promuovere una nuova ‘bussola strategica’ e un esercito europeo va di certo accolta positivamente. La dura lezione dell’Afghanistan può dare il giusto slancio. Ma non vanno dimenticate altre lezioni, come quella degli EU battlegroups. Se ne è iniziato a parlare nel 1999, sono ‘impiegabili’ dal 2007, ma non sono mai stati impiegati. Per non ripetere gli stessi errori del passato, va capito chi sostiene il costo di un esercito europeo e soprattutto chi e come decide per il suo utilizzo. Se rimane l’unanimità in politica estera, l’esercito europeo rischia di restare fermo.