Da essere opportunità di guadagno statale si trasformano in veri e propri poltronifici che vengono assegnati dal “regnante di turno”, per fare cosa? vi chiederete. Ma è ovvio, per amministrare soldi e dare incarichi clientelari agli amici di amici, per garantirsi una comunità sempre più forte alle spalle.
E’ questo il sistema delle società partecipate in Italia. Ci sono poltrone da assegnare, assunzioni da fare nei confronti di chi ha fatto la campagna elettorale o favori al politico di turno, appalti da bandire, tutto arricchito dalla gestione opportunistica dell’Ad di turno e dei suoi compagni “politici” di merende. Ovviamente non si parla di vere e proprie società a delinquere. Si fa tutto nei limiti della legge. Una consulenza qui, un assunzione qua e il gioco è fatto.
Ma la meritocrazia?? Non è un principio che ci piace tanto purtroppo! Queste società sono veri e propri poli di potere politico ed economico. Ma oltre ad utilizzare aziende partecipate come se fossero le loro, gli Ad, protetti e tutelati dalla politica, si permettono anche il lusso di tralasciare la qualità dei servizi e l’economicità dell’azienda; diventato oramai l’ultimo pensiero per gli amministratori.
L’ultima stangata arriva dalla Corte dei Conti che ha appena ultimato un’indagine sugli organismi partecipati dagli enti territoriali e sanitari e ha appurato che il 23% soltanto di quelli partecipati dagli enti territoriali, Regioni, Città Metropolitane e Comuni, sono in perdita.
Lo scenario rappresentato dalla Corte ci mette davanti ad una verità evidente, spreco di soldi legati ai costi fissi, investimenti deludenti e disservizi da paese sottosviluppato in alcuni casi. Soprattutto per quanto riguarda gli enti sanitari.
La Sezione delle Autonomie della magistratura contabile ha individuato 7.154 organismi partecipati in via diretta e indiretta dagli enti territoriali e ha rilevato 101.478 partecipazioni, di cui 23.154 dirette e 78.324 indirette, per la maggior parte riferite ai Comuni, quasi il 97%, e localizzate per il 75% nel Nord Italia. Nell’esercizio 2018, quello preso in esame dalla Corte dei Conti, è quindi risultato in perdita circa il 23% delle 2.656 società a controllo pubblico, con un risultato d’esercizio negativo che si attesta su un valore di 555 milioni di euro.
Nei servizi pubblici locali meno di un quinto delle controllate è in perdita, il 16,36%, ma nei servizi strumentali il numero già sale a quasi un terzo, circa il 27,73%.
“Gli enti, come rilevato in passato – sottolinea la Corte dei Conti – tendono a “conservare” le partecipazioni detenute, senza alcun intervento di razionalizzazione, con percentuali superiori all’80%”.
Nei Comuni, nel 87,38% dei casi hanno scelto di mantenere le partecipazioni. E problemi non mancano negli stessi enti sanitari. La Corte dei Conti ha individuato in tale ambito 149 organismi partecipati in via diretta e indiretta e ha rilevato, per le società partecipate, 267 partecipazioni, di cui 238 dirette e 29 indirette.
Sono risultate in perdita 19 società su 90, il 21,11%, con un risultato d’esercizio negativo pari a circa 3,9 milioni di euro. Ma soprattutto è stato appurato che il 34,65% delle partecipate dagli enti sanitari sono aziende per cui “si sarebbero dovute adottare misure di razionalizzazione” e non è stato fatto.
“Il sistema delle partecipazioni pubbliche – conclude la Corte dei Conti – rappresenta un nodo cruciale per la vita economica del Paese, tuttavia, le amministrazioni in alcuni casi hanno utilizzato tale strumento privatistico al fine di eludere i vincoli di finanza pubblica”. Serve un cambiamento drastico e un nuovo modello per quanto riguarda le società partecipate, è di vitale importanza in un momento storico in cui il lavoro scarseggia e le aziende ricche e potenti diventano sempre più ricche e potenti.
Le società pubbliche dovrebbero servire a garantire un guadagno allo Stato e non una perdita, se sono in perdita e non si vogliono chiudere lo si fa solo per un discorso di consensi. Li stessi capitali utilizzati per mantenere a galla una società in perdita si possono e si devono investire in nuovi progetti; magari più green di un Ilva di Taranto.
Inoltre, se l’amministratore non riesce a fare bene è giusto premiarlo con un lauto stipendio? Non sarebbe l’ora di mettere delle clausole che mirino a risultati positivi per stipendi a sei zeri o per premi vari? Non pare sia una cosa così ingiusta chiedere dei risultati a chi dovrebbe venire scelto “tra le eccellenze”.