Home Approfondimenti DOPO 20 ANNI DI GUERRA L’AFGHANISTAN TORNA IN MANO AI TALEBANI

DOPO 20 ANNI DI GUERRA L’AFGHANISTAN TORNA IN MANO AI TALEBANI

by Calogero Jonathan Amato

I talebani si sono ripresi l’Afghanistan prima ancora che l’ultimo soldato della missione internazionale (Isaf) lasciasse il paese. Ieri, mentre i miliziani islamisti sciamavano sulla capitale in subbuglio, il presidente Ashraf Ghani abbandonava il paese rifugiandosi prima in Tagikistan e poi in Uzbekistan. Le notizie, convulse, delle ultime 24 ore hanno lasciato spiazzati analisti e commentatori: già nelle ultime settimane l’avanzata delle milizie islamiche non aveva incontrato resistenze, procedendo speditamente distretto dopo distretto. Ma nessuno aveva previsto una débacle delle istituzioni e dell’esercito afghano così repentina e totale. Kabul, in cui vivono circa 4 milioni e mezzo di persone, è caduta nel giro di poche ore mentre le missioni diplomatiche si affrettavano ad una fuga rocambolesca a bordo di velivoli militari e i civili abbandonavano la capitale con ogni mezzo possibile. In serata la situazione all’aeroporto si è fatta talmente caotica da costringere i marines a sparare colpi in aria per evitare che la popolazione in preda al panico prendesse d’assalto gli ultimi voli in partenza. Immagini di una disfatta totale, che arriva dopo 20 anni di guerra, oltre 250mila morti tra cui numerosissimi civili e oltre 88 miliardi di dollari stanziati solo per addestrare ed equipaggiare il cosiddetto esercito afghano. E mentre il Segretario di Stato Antony Blinken si affannava a ripetere che i paragoni con la caduta di Saigon nell’aprile del 1975 non sono appropriati e che in Afghanistan gli Stati Uniti “hanno portato a termine la loro missione”, la popolazione afghana si ritrova da sola a fronteggiare un futuro denso di incognite.

Il termine “offensiva” talebana, molto utilizzato nei resoconti delle ultime settimane, tace una realtà generale: da Mazar-i-Sharif, principale centro nel nord, a Jalalabad al confine col Pakistan, i distretti e le capitali provinciali dell’Afghanistan sono cadute una dopo l’altra senza combattere. I soldati del cosiddetto “esercito afghano” si sono arresi senza sparare un colpo. I talebani, con una strategia utilizzata già negli anni Novanta, avevano promesso di risparmiare coloro che avessero deposto le armi e consentito loro l’ingresso pacifico nei centri abitati. Inoltre molti erano consapevoli che da Kabul o dalle capitali provinciali non sarebbero arrivati rinforzi. Ma ciò non basta a spiegare le proporzioni di una disfatta così epocale da meritare – piaccia o meno – il paragone con il Vietnam. La vittoria e il ritorno dei talebani alla guida del paese dipende in ultima analisi dalla debolezza delle forze armate, nonostante duemila miliardi di dollari stanziati in vent’anni per addestramento ed equipaggiamenti, e dalla mancanza di legittimità delle istituzioni afghane. Inoltre la firma dell’accordo di Doha, nel febbraio 2020, progettato dall’amministrazione Trump con l’esclusione – di fatto – del governo afghano, ha demoralizzato molte forze afgane, rafforzando gli impulsi corrotti di molti funzionari e la loro debole lealtà al governo centrale. “Molti hanno visto in quel documento l’inizio della fine”, confida al Washington Post un ufficiale dell’esercito “e ognuno ha cominciato a badare solo a sé stesso. Era come se [gli Stati Uniti] ci avessero abbandonato”.

In un post su Facebook, il presidente afghano Ashraf Ghani ha spiegato di aver abbandonato il paese per evitare ai cittadini “un bagno di sangue”. Una scelta, la sua, che non ha mancato di sollevare critiche: Abdullah Abdullah, leader dell’Afghan National Reconciliation Council, ha definito “incomprensibile” l’uscita di Ghani durante “questa difficile situazione”. Poche ore dopo la fuga del presidente, i talebani hanno annunciato la fine delle ostilità e l’imminente nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan: “È ora di metterci alla prova – ha detto il mullah Abdul Ghani Baradar, nuovo volto politico del movimento, circondato da miliziani in un video registrato direttamente dall’ufficio presidenziale – Faremo tutto il possibile affinché le vite degli afghani migliorino”. Allo stesso tempo un portavoce del movimento islamista ha riferito all’Associated Press che sono in corso colloqui volti a formare un “governo islamico aperto e inclusivo”. Tutte iniziative – osservano i critici – volte a mostrare il lato più presentabile dell’organizzazione, sperando di sfuggire lo status di pariah internazionali. E mentre sulla forma di governo che si appresta a nascere sono in corso speculazioni, sul piano internazionale e diplomatico, appare evidente l’assenza di una strategia con cui far fronte alla nuova realtà sul campo: un Consiglio di sicurezza Onu è in corso e una riunione straordinaria dei ministri degli Esteri Ue è stata convocata per domani. Ma se l’obiettivo è quello di compattarsi contro un riconoscimento del governo che i talebani si apprestano ad annunciare, potrebbe essere già troppo tardi: “La Cina rispetta il diritto del popolo afghano di determinare in modo indipendente il proprio destino e futuro, ed è disposta a continuare a sviluppare relazioni amichevoli e di cooperazione”, ha fatto sapere la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying in conferenza stampa. D’altronde Pechino condivide un confine di 76 chilometri con l’Afghanistan e farà di tutto per evitare che diventi un sostegno per i separatisti uiguri di minoranza islamica nella delicata regione di frontiera dello Xinjiang. Anche la Russia – concordano gli analisti – propenderà per un approccio “pragmatico” in chiave anti-terrorismo, con il nuovo esecutivo di Kabul.
A poche settimane da un anniversario di peso, quello dei 20 anni dall’attacco dell’11 settembre 2001, la disfatta afghana e il ritorno dei talebani a Kabul tornano a tormentare l’America. “Cosa abbiamo sbagliato”, “disastro Afghanistan”, “Resa a Kabul” sono solo alcuni dei titoli delle principali testate americane di oggi. La più lunga e dispendiosa guerra che gli Stati Uniti abbiano mai condotto all’estero, si conclude con una bruciante sensazione di sconfitta e l’amministrazione Biden viene chiamata a prendersi le responsabilità della gestione di un ritiro che il Wall Street Journal definisce, senza mezzi termini “un completo fallimento”. La scadenza per il ritiro fissata da Trump “è stata un errore”, osserva il quotidiano conservatore, “ma Biden avrebbe potuto aggirarla come ha fatto con numerose decisioni del suo predecessore” invece ordinò un ritiro rapido e totale all’inizio dell’autunno, in tempo per la data simbolica dell’11 settembre”. Ma la rapida riconquista di Kabul da parte dei talebani dopo due decenni “è, soprattutto, indicibilmente tragica”, scrive il comitato editoriale del New York Times . “Tragico perché il sogno americano di essere la ‘nazione indispensabile’ nel plasmare un mondo in cui i valori dei diritti civili, l’emancipazione femminile e la tolleranza religiosa si sono rivelati proprio questo: un sogno” ed “è tanto più tragico a causa della certezza che molti degli afgani che hanno lavorato con le forze americane e hanno accettato il sogno – e specialmente le ragazze e le donne che avevano abbracciato una misura di uguaglianza – sono stati lasciati alla mercé di uno spietato nemico”. Capovolgendo la prospettiva, la questione cambia e negli Stati Uniti irrompe nel dibattito politico interno: “L’unica domanda che resta è quanto si dimostrerà dannosa [per Joe Biden] questa immagine di sconfitta” osserva David E. Sanger. “O se gli americani che hanno esultato ai raduni della campagna elettorale del 2020 quando sia Trump che Biden promettevano di uscire dall’Afghanistan, scrolleranno le spalle e diranno che doveva finire comunque, anche se è finita male”. I Talebani sono al potere. Lo hanno conquistato con una rapida offensiva militare nonostante la comunità internazionale li avesse ammoniti che un governo preso con la forza non avrebbe avuto legittimità internazionale. Sanno di poter contare sui pragmatici attori regionali, Islamabad, Pechino, Mosca, Teheran. Nel caso formassero un governo di transizione, cercheranno di mostrarsi inclusivi e moderati. Ma da oggi detteranno le regole del gioco.
In primo luogo emerge un errore di fondo: la sopravvalutazione delle forze afghane e la sottovalutazione delle capacità talebane. A ciò si unisce un aspetto che l’intelligence non ha compreso o ha sottovalutato: la situazione reale sul campo – con una componente talebana affiancata e sostenuta da combattenti stranieri – e le dinamiche negoziali in corso tra i talebani, da una parte, e i governatori dei distretti più periferici e i comandi locali delle forze armate afghane, dall’altra. Infine, ma non da ultimo, dobbiamo evidenziare il ruolo decisivo che ha giocato la velocità con cui Washington ha completato il disimpegno militare dall’Afghanistan, indipendentemente dalle condizioni sul campo: una scelta politica che ha influito in maniera decisiva creando un’opportunità d’azione che è stata immediatamente colta dai talebani.

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