L’Italia si è proposta come sede della seconda Conferenza Internazionale per la ricostruzione dell’Ucraina, la prima si tenne a Lugano in Svizzera terra della neutralità per eccellenza.
L’intento é nobile ma il fine concreto, allo scopo di ricostruire un Paese distrutto dalla guerra, deve avere come premessa quella di far tacere le armi.
Ed é a questo proposito che l’Italia presenta una posizione di estrema debolezza politica perché é più che evidente che la nostra posizione di intercapedine fra l’est e l’ovest é minata alla base, nel caso del conflitto ucraino, da una posizione governativa che si articola fra l’atlantismo riveduto e corretto della destra tradizionale e le conclamate posizioni filo-russe degli altri partner junior di governo, posizione che si consolida nell’ampio spettro di forze sociali e religiose che hanno esplicitamente fatto riferimento al non sostegno alla resistenza Ucraina nel corso di tutto questo anno.
Meloni, partecipando al g-20, offrirà presumibilmente Roma come sede per ospitare questa Conferenza di Ricostruzione anticipando un possibile dopo-guerra, ma è proprio nella scelta lungimirante di preparare un futuro che cerchi di ridisegnare un equilibrio possibile del nuovo ordine mondiale della post-globalizzazione che si può inserire una iniziativa di sostanza politica italiana.
Infatti la Conferenza non può che avere come obbiettivo quella del dialogo e della Pace che sono propedeutiche a qualsiasi ricostruzione.
D’altronde è la stessa Storia che illumina, Yalta, che certo fu Conferenza dei vincitori, fu pensata e preparata prima della fine del Conflitto, la stessa iniziativa cinese ha avuto nelle sue premesse una prospettiva che è quella che la Guerra ad un certo punto avrà una fine.
Se l’Italia vuole ritagliarsi un ruolo non caudatario in questa situazione, e non vuole relegarsi al ruolo di un neutralismo compassionevole come sede ospitante di una Conferenza Internazionale di ricostruzione deve aggiungere quel che manca ed é mancato in questi mesi di scontro radicale fra posizioni che hanno rappresentato solo l’hard-power.
In altri termini deve continuare ad esistere per noi il compito di promuovere una politica come è stato nella lunga tradizione del nostro dopo-guerra nel quale hanno prevalso le diverse tendenze che furono interpretate dai singoli protagonisti cattolici e socialisti della nostra politica estera che sempre seppe adattarsi alle diverse fasi di sconvolgimento della politica mondiale: il pacifismo di Pietro Nenni, la scelta mediterranea di Moro successivamente proseguita da Andreotti e Craxi, che adottarono una posizione di deterrenza che favorì la fine della Guerra Fredda e l’avvio della prima virtuosa fase dell’Unione Europea.
Senza una politica estera l’Italia si ritaglia un ruolo di subalternità, nell’alleanza politico-militare e non imprime il necessario contributo di esperienza alla politica dell’Unione, e soprattutto non tende al bene superiore universale che è quello della pace nella sicurezza e nella legalità internazionale per tutti i popoli.