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Smart? Sì, ma c’è un alto prezzo da pagare

by Marco Camporeale

Oggi
più che mai il ruolo dell’ICT (Information and Comunication Technology) sta
entrando nella vita di tutti aprendo la strada alla così detta rivoluzione dell’“Internet
of Things”.

Sempre
più si sente parlare di smart cards,
smart cities, smart watch
, tutte procedure o prodotti che per essere
utilizzati, o meglio, per raggiungere la loro piena utilità, devono essere
connessi alla rete che elabora i dati provenienti dai loro sensori.

Gran parte di questi
sono posizionati nei muri delle case, nei nuovi televisori, in tutti gli
apparecchi elettronici che comperiamo e nelle automobili. Parte di questi
sensori, che sono invece fissi, sono inseriti negli spazi pubblici e sono
quelli con i quali i nostri meccanismi elettronici si collegano senza che noi
lo sappiamo.

Questo progresso sta
senza dubbio aumentando le aspettative generali per la nascita di nuovi
prodotti e processi alzando di gran lunga la frontiera delle innumerevoli
applicazioni tecnologicamente innovative realizzabili.

Se grazie a Colombo si sancì l’inizio della modernità con la scoperta di una nuova frontiera, cioè quella americana, oggi non si può più parlare di frontiere fisiche ma si deve parlare di frontiera di tipo informatico definita da alcuni “infosfera”.

Oggi è impensabile
immaginare il capitalismo nella forma attuale, quindi dei rapporti di
produzione capitalistici globali, senza la mediazione della rete di internet.

La rete internet, in realtà, è fatta, fisicamente, dall’hardware che si dirama nella rete estesa: sono dei giganteschi cavi, estremamente grossi che passano in tunnel sotto i mari. Sono una serie di server potentissimi che consumano una quantità spaventosa di energia e che semplicemente nessuno sa dove siano.

Tutto ciò ci viene
presentato come progresso ma in realtà esso si basa su routine industriali che
erodono irrimediabilmente le risorse naturali del pianeta anche molto
velocemente.

Per rendere chiara l’analisi
è necessario introdurre il concetto di impronta ecologica, definita come un
indice statistico utilizzato per misurare la richiesta umana nei confronti
della natura. Essa mette in relazione il consumo umano di risorse naturali con
la capacità della Terra di rigenerarle.

L’impronta ecologica
giusta che dovremmo avere è pari a 1. Oggi l’impronta ecologica mondiale è pari
a 1,4 il che significa che dovremmo avere un pianeta e mezzo per non esaurire
le risorse naturali ogni anno prima della fine di quest’ultimo. Ecco che
infatti ogni anno l’overshoot day,
vale a dire il giorno nel quale abbiamo finito di consumare le risorse che sono
teoricamente riproducibili e incominciamo a consumare delle risorse che non
saranno mai più riprodotte, si accorcia perdendo giorni.

Ma la cosa ancor più pessima è che i luoghi che vengono indicati da tutti come i più avanzati del mondo, come la famosa Silicon Valley, ebbene l’impronta ecologica di questi posti è 6. Il che significa che se tutto il mondo vivesse e si sviluppasse per poter diventare come ci dicono che potremmo diventare, cioè come la Silicon Valley ci vorrebbero sei pianeti per poter mantenere tutti quanti questo tenore di vita.

Tutto ciò fa comprendere che se l’impronta ecologica mondiale oggi è 1,4 è solo grazie a quei posti sottosviluppati dal Burkina Faso, all’ India dove la società ha un impatto ambientale molto più basso dato soprattutto dalla mancanza di progresso tecnologico.

Insomma, questo per
dire che abbiamo una situazione molto, molto squilibrata e che quindi non c’è
da stupirsi dei flussi migratori e delle situazioni drammatiche che si
verificano, questo dipende semplicemente dal fatto che l’equilibrio
globale è fortemente sbilanciato.

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