L’Italia è stata percepita come il Paese dei misteri e dei poteri occulti, in cui nel buio di stanze segrete si sono decisi e consumati fatti oscuri e illeciti, mai interamente disvelati al punto da pesare nel coerente sviluppo della vita civile e democratica.
Tra i numerosi incarichi che ha avuto Salvo Andò vi è stato anche quello di segretario della Commissione di Controllo per i servizi di sicurezza e per il segreto di Stato, nonché di componente delle commissioni di inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali.
Proprio i luoghi istituzionali dove si è dibattuto sull’incidenza che la criminalità mafiosa ha avuto sulla cultura sociale e le condizioni di vita della gente. E questi organismi hanno svolte indagini anche sulle organizzazioni segrete che ancora oggi operano e spesso a fini eversivi. Si torna a parlare di logge segrete e di un “sistema” di potere illecito che condiziona la nostra democrazia. Ecco le idee su questi temi di Andò.
Non credo che l’inchiesta sulla cosiddetta loggia Ungheria possa portare a grandi risultati. L’imputato Amara, che ha rivelato ai giudici l’esistenza della loggia, non l’ha fatto certo per amore di verità. Si tratta di una strategia processuale tendente a delegittimare qualcuno e, soprattutto, a creare una grande confusione che potrebbe servire, ma già sta avvenendo, a scatenare una guerra per bande all’interno degli uffici giudiziari.
Non c’è dubbio che, anche dopo la conclusione parlamentare sull’inchiesta della P2, si sono avuti reiterati tentativi di ricostruire organizzazioni più o meno segrete allo scopo di condizionare i processi di decisione politica o di ricattare i potenti di turno. Basti pensare al caso di Lugi Bisignani e ad altre inchieste in corso. Alcuni sodali di Gelli si sono riciclati, si è parlato di P2, P3, P4.
Certo, bisogna intendersi sulla natura di queste organizzazioni, sovente si tratta di gruppi di pressione che tendono ad utilizzare le fonti più diverse per acquisire notizie e commerciarle utilmente di volta in volta, tenuto conto anche della forte e permanente conflittualità politica.
Ma c’è anche dell’altro, come rivelato dalla scoperta di reti di traffici spesso illeciti che coinvolgono anche settori importanti del sistema politico, insomma di iniziative anti-italiane. Certo è che nostro Paese ci si muove in base all’appartenenza a certi gruppi. Si badi bene, una cosa è creare organizzazioni a sostegno dei comitati d’affari, più o meno segrete, un altro conto è promuovere organizzazioni eversive come la P2. Spesso si tratta di obbiettivi contigui.
Del resto, se si è fatta una legge sul traffico di influenze illecite, era chiaro a tutti che c è un problema ancora irrisolto di come difendere l’interesse pubblico minacciato da settori dell’establishment politico e finanziario che fanno massa critica per imporre la loro volontà esiste. Basti pensare ai molti intermediari che si organizzano per fornire servizi alla pubblica amministrazione, spesso utilizzando strumenti tutt’altro che trasparenti.
Ovviamente cosa è diversa un’organizzazione che si occupa – invece – di aggiustare le sentenze, oppure di interferire sulle nomine dei vertici dei maggiori uffici giudiziari, insomma di stravolgere lo stato di diritto. Ma comunque, ripeto, la mia idea è che da questa inchiesta sulla loggia Ungheria non verrà fuori nulla. Mi auguro che il coinvolgimento dei magistrati sia una balla messa in giro allo scopo di creare confusione e che gli organi di informazione agiscano con senso di responsabilità nel dare in pasto al pubblico certe notizie.
Certe lezioni dovrebbero servire per tutti. Al di là di come andrà a finire l’inchiesta sulla presunta loggia segreta Ungheria, non pare dubbio che questa vicenda sia destinata a rendere ancora più pesante il clima all’interno della magistratura italiana. Si tratta di un altro duro colpo assestato alla credibilità della giustizia, già così duramente compromessa dalle disinvolte rivelazioni. Badi bene, una cosa è creare organizzazioni a sostegno dei comitati d’affari, più o meno segreti, un ‘altro conto è mettere a punto organizzazioni eversive come la P2.
Spesso si tratta di obbiettivi contigui. Del resto, se si è fatta una legge sul traffico di influenze illecite, era chiaro a tutti che il problema di come difendere l’interesse pubblico minacciato da settori dell’establishment politico e finanziario che fanno massa critica per imporre la loro volontà esiste.
Basti pensare ai molti intermediari che si organizzano per fornire servizi alla pubblica amministrazione, spesso utilizzando strumenti tutt’altro che trasparenti. Ovviamente cosa diversa un’organizzazione che si occupa – invece – di aggiustare le sentenze, oppure di interferire sulle nomine dei vertici dei maggiori uffici giudiziari, insomma di stravolgere lo stato di diritto. Ma comunque, ripeto, la mia idea è che da questa inchiesta sulla loggia Ungheria non verrà fuori nulla.
Si fa riferimento a personalità di primo piano dello Stato e anche a magistrati che farebbero parte di questa presunta loggia che Amara prima del suo nuovo arresto ha definito un’associazione segreta non massonica.
Mi auguro che il coinvolgimento dei magistrati sia una balla messa in giro allo scopo di creare confusione e che gli organi di informazione agiscano con senso di responsabilità nel dare in pasto al pubblico certe notizie. Certe lezioni dovrebbero servire per tutti.
Al di là di come andrà a finire l’inchiesta sulla presunta loggia segreta Ungheria, non pare dubbio che questa vicenda sia destinata a rendere ancora più pesante il clima all’interno della magistratura italiana. Si tratta di un altro duro colpo assestato alla credibilità della giustizia, già così duramente compromessa dalle disinvolte rivelazioni fatte da Luca Palamara, che ha spiegato come funziona il sistema della magistratura associata che nessuna riforma riuscirà, almeno nell’immediato, a mettere in discussione.
Insomma – è questa la tesi dell’ex leader dell’ANM – o si distrugge il sistema, o esso sarà sempre in grado di assorbire crisi e contraccolpi che possano destabilizzarlo, tanto forte è la capacità negoziale che esprime, soprattutto se raffrontata alla debolezza della politica. Stavolta teatro dello scontro tra le correnti, gruppi e personalità eminenti del giudiziario è la Procura di Milano.
E tuttavia, come sempre avviene in questi casi, è inevitabile un effetto domino dell’inchiesta, con il coinvolgimento di più procure, della Cassazione e, ovviamente, del Csm – che pare essere diventato la sede naturale dei regolamenti dei conti e delle mediazioni che intervengono tra le correnti- nonché degli organi di informazione che fanno da megafono a questo o quel partito dei giudici.
Affiora in questa torbida vicenda il ruolo ambiguo e oscuro di Piercamillo Davigo.
Davigo è stato protagonista “volontario” di tanta bagarre. Davigo, esponente di spicco di ANM e leader indiscusso della sua ala ipergiustizialista, oggi in pensione, fa notizia qualunque sia la posizione che assume nel dibattito sulla giustizia. Inspiegabilmente ha avuto a disposizione le carte dell’inchiesta- coperte da segreto istruttorio – ed ha cominciato a muoversi a destra e a manca per salvare, a suo dire, la Repubblica. Questa inchiesta rivela, attraverso la durezza dello scontro che contrappone anche magistrati che erano legati da vincoli di corrente, che le tensioni interne al mondo giudiziario hanno ormai raggiunto un’intensità tale da minacciare una ordinata vita democratica. Ciò ha contribuito a fare del Csm sempre più un porto delle nebbie. Il Consiglio è di fatto divenuto il braccio armato dall’ANM, ma anche una terza Camera che gestisce in via esclusiva le politiche della giustizia.
Secondo me c’è un solo modo dimettere ordine a questo stato di cose: tornare alla Costituzione, cioè abrogare la costituzione materiale del giudiziario venutasi a formare su impulso dell’ANM. In questo contesto, l’autogoverno della magistratura ha dato luogo ad una vera e propria attività di indirizzo politico in materia di giustizia, condivisa da Anm e Csm. Ciò ha creato un coagulo di interessi corporativi che hanno nociuto all’indipendenza.
Un’altra storia di trame perverse è quella di Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia, che aveva costituito un centro di potere e di condizionamento della vita politica e giudiziaria sventolando le bandiere del professionismo antimafioso .Ci sono assonanze con i casi di Amara e Palamara?
Si tratta di vicende diverse, stando a quanto è finora emerso. Nel primo caso si è trattato di un fenomeno di malagiustizia, di scambio di favori tra magistrati ed avvocati, insomma di un traffico illecito di influenze favorito da consolidate relazioni che gli avvocati indagati intrattenevano con personaggi collocati ai piani alti del sistema giudiziario e anche di un collaudato mercato delle sentenze. Nel secondo, invece, uno dei più significativi avamposti dell’antimafia costituito dal mondo delle imprese pulite, si è rivelato pericolosamente contiguo alla mafia, disposto a fare affari usando gli stessi metodi.
Si è utilizzata la credibilità acquisita attraverso le battaglie antimafia come grimaldello per estorcere decisioni politiche gradite, per ottenere tutto – o quasi – nel mondo degli affari, violando le regole della concorrenza. Costoro, insomma, hanno utilizzato l’impunità conquistata attraverso le invettive contro la mafia per fare affari tutt’altro che puliti e, paradossalmente, accettando anche complicità imbarazzanti che la politica assecondava, dimenticando chele cose non sono buone o cattive a secondo di chi le fa ma, come insegnava Sciascia, sono buone o cattive in sé.
Si è abusato della credibilità popolare, del sostegno dell’informazione per realizzare una grande impostura, che ha fatto di piccoli imprenditori importanti uomini d’affari di fronte ai quali si aprivano tutte le porte.
È chiaro che il mondo dell’impresa pulita davvero, che inneggiava a Libero Grassi, si è sentito tradito, impotente di fronte a questa antimafia faccendiera, sia nel mondo del business che in politica.
Si è distrutto un tratto di storia siciliana fatto di grandi speranze. La Confindustria siciliana ha subito un colpo durissimo, alcuni suoi uomini simbolo sono spariti dalla circolazione, si è data ragione a chi parlava di una Sicilia irredimibile, ove cambiano le facce ma non i metodi di governo, l’intreccio tra affari legali e illegali.
In questi mesi il noto giornalista Michele Santoro ha scritto un libro dal titolo assai sibillino “Nient’altro che la verità” che raccoglie le ultime dichiarazioni del pentito di mafia o meglio dell’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola. Il killer di cosa nostra ha disvelato particolari inediti sui misfatti della mafia siciliana autoaccusandosi di aver partecipato alla strage di Via D’Amelio e di altri fatti compiuti da Cosa nostra persino sull’attentato che costò la vita a Enrico Mattei. In alcuni processi del passato ha tirato in ballo anche i socialisti accusati dal pentito di collusione con la mafia.
C’è qualcosa di incomprensibile in questa operazione editoriale proposta da Santoro attraverso il libro su Maurizio Avola che non può essere trattata, come qualcuno ha detto, soltanto come un tentativo di Santoro di rientrare nel grande giro della comunicazione.
Del resto, Santoro stesso spiega che non sa bene perché ha deciso di incontrare uno che ha ucciso più di 80 persone, che da pentito ha continuato a fare il rapinatore, che ha compiuto efferati delitti e che è stato un killer spietato che ha operato sempre su commissione e, in qualche caso, anche in proprio.
Ha fatto una grande impressione, tanti anni fa, in occasione di un processo a Bologna, svoltosi intorno la metà degli anni 80 una sua dichiarazione in cui ha spiegato che aveva ucciso una vicina di casa perché gli era antipatica, perché lui più o meno ragionava così; se qualcuno gli dava fastidio ,lo liquidava. Ripeto tutto ciò c’entra poco con la storia romanzata che ci consegna Santoro.
Santoro a tuo avviso ha dato fiato a falsità?
No, fa il suo mestiere dopo anni di silenzio. Semplicemente, osservo che, in questo caso, non c’è un criminale che sente il peso terribile delle proprie colpe, ma un mentitore sbugiardato dai tribunali dimezza Italia che ancora una volta vuole farla franca per avere dei vantaggi, pensando che attraverso le sue fandonie possa trovare udienza presso l’opinione pubblica e, magari, mettere in moto un processo di depistaggio che può servire ad alcuni oltre che a sé stesso.
Non è una grande notizia quella secondo cui Cosa nostra, aveva rapporti anche con apparati istituzionali. Ma su questo punto Avola non dice molto, spiega che ha fatto tutto da solo nella fase finale dell’attentato di via D’Amelio, perché non c’è alcuna autorità al di sopra della mafia che potesse condizionarne le scelte. Insomma, ci tiene a dire che con la sua confessione finisce tutto, che non c’è più nulla su cui indagare. Non dà prove, vuole che il caso si chiuda cosi come si tentava di fare con i tanti depistaggi, poi smontati.
Dalla narrazione di Avola, che è ce viene trattato come un grande tecnico della materia, addirittura ci fornisce una sua lettura del delitto Mattei, con i boss che manomettono un aereo per mettere una bomba. Non è un gioco da ragazzi fare ciò su un aereo.
Non c’è inquirente che non abbia definito inattendibile Avola, insomma, sembra che ci si trovi di fronte ad un nuovo tentativo di depistaggio da parte del personaggio. Santoro ha spiegato che si ha paura del suo libro, ma il libro come l’inchiesta, non dovrebbe fare paura a nessuno.
Il libro promuove un chiacchericcio senza costrutto, e non si interroga su alcune questioni davvero oscure: come mai i boss palermitani che hanno sempre compiuto tutti gli attentati da soli, con la propria organizzazione si affidano ad Avola per un attentato così importante, un killer di cui si fidavano fino ad un certo punto, che forse non doveva essere messo a parte di segreti così importanti. Ma anche sul caso Mattei non pare che ci sia interesse ad approfondire. Facendo delle precise domande a chi dice di sapere molto sull’argomento, come mai non si chiede chi permise ai boss di entrare in pista?
Quali erano le dimensioni e il funzionamento della bomba ? Dove è stata nascosta? Come sono entrati nell’aereo, solitamente con portelli chiusi serrati quando è in sosta?
Pensi dunque che questo “pentito” sia manovrato e che, comunque, voglia proteggere qualcuno?
Io direi che non è dato capire chi sta manovrando Avola, a quali fini, e se questo tentato depistaggio sia in grado di reggere a lungo. Ripeto, sembra che si sia di fronte ad un nuovo tentativo di ostacolare l’inchiesta. A chi conviene tanto zelo investigativo a senso unico e che non produce prove inoppugnabili.
Pare proprio assolutamente inattendibile il tentativo di fare emergere l’umanità di un killer spietato che entra ed esce dal pentitismo trovando via via mallevadori diversi; ieri i giudici, oggi un giornalista. Le rivelazioni di Avola tutto sono tranne che sconvolgenti e in molti processi, che si sono svolti anche a Catania, sono state smentite in maniera netta.
Per esempio, ai rapporti tra i partiti e le organizzazioni mafiose. Ha dato delle notizie, con riferimento alle campagne elettorali, che sono state poi smentite. In sostanza ,cercava di dare di se l’impressione di essere un personaggio di rilievo dell’organizzazione, ma quando si arriva a chiedergli dei particolari verificabili, compie errori clamorosi; non riferiva notizie de relato, ma notizie inventate di sana pianta.
Era noto a tutti che i socialisti e i radicali avevano fatto il referendum sulla giustizia, ma Avola quando parlava di rapporti elettorali utilizzava questo elemento per giustificare le sue clamorose rivelazioni, quando si trattava di fatti noti a tutti su cui Avola costruisci teoremi. Mentre poi, dati elettorali alla mano, è emerso che i boss i voti li davano non tenuto conto delle crociate garantiste ma attraverso operazioni di compravendita.
In sostanza, nella storia del pentitismo mafioso Avola è stato considerato un magliaro che metteva in circolo notizie tanto clamorose quanto improbabili, considerato che non aveva accesso ai piani alti dell’organizzazione mafiosa. E, però, per godere dei vantaggi del suo status di pentito doveva comunque dare notizie eclatanti.