Home Attualità Salvo Andò: “Dopo la pandemia bisogna rifare l’Italia”

Salvo Andò: “Dopo la pandemia bisogna rifare l’Italia”

by Rosario Sorace

Approvato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza adesso il Governo e il Parlamento dovranno mettere mano alle riforme che in gran parte vincolano l’erogazione delle risorse dell’Ue. Si tratta di procedere al più presto, dovendo, però, fare i conti con le resistenze e le divisioni della maggioranza larga.

Su fisco e giustizia, soprattutto, le posizioni nella maggioranza sono tutt’altro che convergenti. La Lega addirittura sulle proposte di riforma della giustizia della Ministra Cartabia è decisa, se dovessero passare, si dovrà promuovere un referendum. Si tratta di un tema su cui l’Europa non intende fare sconti all’Italia, in particolare per quanto riguarda una riduzione dei tempi dei processi. Il dissesto della giustizia è sotto gli occhi di tutti. Continuano a registrarsi forti tensioni nell’ambito giudiziario e il “sistema” denunciato dal caso Palamara, nonché i verbali avvelenati di Amara, alimentano una perdita di fiducia nella magistratura che agli occhi dei cittadini appare sempre meno credibile e autorevole. Ora, anche le rivelazioni riguardanti la presunta loggia segreta “Ungheria” fa crescere le polemiche e mette scompiglio nelle agitate acque del Csm e dell’Anm.

Si è parlato di un vero e proprio traffico di carte giudiziarie per delegittimare questo o quel vertice del sistema giudiziario. Si tratta di fatti gravissimi. Pare che il Pm milanese Storari abbia consegnato, violando il segreto istruttorio, al suo sodale di corrente Davigo le carte dell’inchiesta sulla loggia proprio per delegittimare il Procuratore Greco. Insomma, uno scenario che si presenta fosco e preoccupante e si è chiesto a Salvo Andò di chiarire tramite un suo punto di vista, tenuto conto che in nessun paese europeo le tensioni all’interno del giudiziario hanno raggiunto tale intensità.

Al di là di come andrà a finire l’inchiesta sulla presunta loggia segreta “Ungheria”- che avrebbe organizzato un suo mercato delle toghe e interferito nella gestione di alcuni processi – non pare dubbio che questa vicenda sia destinata a rendere ancora più pesante il clima all’interno della magistratura italiana. Si tratta di un altro duro colpo assestato alla credibilità della giustizia, già così duramente compromessa dalle disinvolte rivelazioni fatte da Palamara, che ha spiegato come funziona il sistema della magistratura associata, che nessuna riforma riuscirà, almeno nell’immediato, a mettere in discussione. Insomma, secondo la tesi dell’ex Presidente dell’Anm, o si distrugge questo sistema di potere fondato su correnti all’interno dell’Anm onnipotenti o la correntocrazia sarà sempre in grado di assorbire crisi e contraccolpi che possano destabilizzarla, tanto è forte la capacità negoziale che esprime, specie se raffrontata alla debolezza della politica.

Stavolta, il teatro dello scontro tra le correnti, gruppi e personalità eminenti del giudiziario è la Procura di Milano ma, come sempre avviene in questi casi, è inevitabile un effetto domino dell’inchiesta, con il coinvolgimento di più procure, della Cassazione e del Csm – che pare ormai essere diventato la sede naturale dei regolamenti dei conti e delle mediazioni tra le correnti – nonché organi di informazione che fanno da megafono a questo o a quel partito dei giudici.

In tutto quello che sta venendo fuori e che sembra probabilmente il frutto di calunnie e del tentativo maldestro di gettare fango su persone della stessa magistratura e di altri apparati dello Stato affiora il ruolo ambiguo e incomprensibile di Davigo.

Protagonista volontario di tanta bagarre è stato il giudice Davigo, esponente di spicco di Anm e leader indiscusso dell’ala ipergiustizialista dell’Anm, oggi in pensione. Inspiegabilmente Davigo ha avuto a disposizione le carte dell’inchiesta (coperte dal segreto istruttorio) e ha cominciato a muoversi a destra e a manca per salvare, a suo dire, la Repubblica. Ha chiesto di essere ricevuto dal Capo dello Stato, che però ha dichiarato che non si occupa dei processi in corso.

Questa inchiesta, per il modo com’è nata e per i conflitti che ha già prodotto, pare destinata a finire su un binario morto. Essa, tuttavia, rivela, attraverso la durezza dello scontro che contrappone anche i magistrati che erano legati da vincoli di corrente, che le tensioni interne al mondo giudiziario hanno ormai raggiunto un livello tale da minacciare una ordinata vita democratica.

Quali potrebbero essere le soluzioni per superare un tale grave impasse nell’Anm e nel Csm che stanno logorando e indebolendo la giustizia italiana?

Da troppo tempo all’interno dell’Anm si registra una lotta senza esclusione di colpi, condotta con strumenti che non si addicono a chi dovrebbe perseguire, tra l’altro, le condotte criminali. Ciò ha contribuito a fare del Csm sempre più un porto delle nebbie. Il Consiglio è di fatto divenuto il braccio armato dall’Anm, ma anche una terza Camera che gestisce in via esclusiva le politiche della giustizia. C’è un solo modo di mettere ordine a tutto ciò: tornare alla Costituzione: tornare alla Costituzione, cioè abrogare la costituzione materiale del giudiziario venutasi a formare per impulso dell’Anm. In questo contesto, l’autogoverno della magistratura ha dato luogo ad una vera attività di indirizzo politico in materia della giustizia, condivisa da Anm e Csm. Ciò ha creato un coagulo di interessi corporativi che ha nociuto all’indipendenza.

Immagini che l’ingresso delle nuove leve nella magistratura possa ribaltare questo stato di cose?

I giovani magistrati, man mano che entrano in carriera, prendono atto di dovere accettare una posizione subalterna rispetto ai vertici del sindacato dei giudici. Si tratta di persone dotate di buona capacità professionale, ed anche colti, ma che si sentono deboli se privi dello scudo protettivo offerto dall’Anm, in grado di dispensare tutele e benefici. E’ giusto ricordare che ai tempi della Prima Repubblica un segretario della Dc, Flaminio Piccoli, di fronte a proposte di legge che riorganizzavano le carriere dei magistrati su basi non certo meritocratiche, reagì alle resistenze che venivano opposte da alcuni dei suoi, con in testa Cossiga, spiegando che bisognava fare in fretta perché “altrimenti questi ci arrestano tutti”.

Se questa è la strategia seguita dai partiti nei rapporti con la magistratura, non c’è da sorprendersi se le riforme della giustizia promesse non sono mai arrivate in porto, o comunque mai nei termini in cui erano state progettate.

Sembra che si nutra poco speranza sulla possibilità di fare le riforme auspicate e lo stesso Salvini ha dichiarato che questa maggioranza di governo e Draghi non riuscirà a farle.

Pare che Salvini intenda rivendicare un ruolo da protagonista nell’attuale maggioranza, fissando i paletti entro cui il governo dovrebbe muoversi. Non si comprende bene se tale atteggiamento scaturisca dalla maggiore sicurezza sul suo futuro, acquisita una volta incassato il non luogo a procedere dai giudici di Catania o dalla volontà di affermare la propria leadership nel centrodestra, sempre più minacciata dalla Meloni. La leader di FdI risulta, infatti, convincente allorché, pur dichiarando di volere preservare l’unità del centrodestra, fa emergere l’incoerenza del leader del Carroccio che sta con i ministri al governo e con il partito e nelle piazze all’opposizione.

La verità è che Salvini si sente sempre più limitato nella sua iniziativa politica, costretto com’è ad assecondare le decisioni del premier che parla con tutti, ma poi decide autonomamente, allorché si tratta di declinare in concreto l’indirizzo di governo. Una volta esaurito il repertorio del “tutti liberi”, che aveva come bersaglio scienziati e politici che suggerivano un’apertura graduale, il leader del Carroccio deve prendere atto che c’è un’opinione pubblica maggioritaria che riconosce a Draghi il merito, grazie alla politica del “ragionevolmente liberi”, di avere tenuto sotto controllo il contagio e di essere riuscito a realizzare, come aveva promesso, una vaccinazione di massa che sta producendo risultati che non sembravano a portata di mano.

In questo contesto, a Salvini non resta che riprendere i temi delle sue tradizionali predicazioni contro gli immigrati, prive di risultati pratici se si considera che da ministro degli Interni non è riuscito a rimpatriare un solo immigrato, né a sconfiggere la flotta dei barchini che, senza bisogno della protezione delle Ong, arrivavano a frotte, con estrema facilità sulle coste della Sicilia e della Calabria.

Il leader leghista pensa di potere riguadagnare una visibilità perduta mettendo in discussione l’indirizzo di governo a suo tempo accettato ostentatamente a scatola chiusa, quando spiegava che aveva mandato al governo ministri di sicura fede draghiana. Con le ultime esternazioni ha spiegato che l’azione di questo governo era e rimane vincolata ad un programma minimo: recovery e sanità, e null’altro. Ma non è questo il programma esposto in Parlamento da Draghi.

Salvini non ha ancora capito il senso della strategia decisa a Bruxelles attraverso gli aiuti destinati all’Italia. Il programma di finanziamento è stato titolato significativamente Next generation Eu. Un programma quindi che impone soprattutto all’Italia di realizzare le riforme da sempre promesse. Se non si fanno le riforme, i soldi per gli investimenti non saranno erogati. I finanziamenti destinati all’Italia hanno delle scadenze che arrivano fino al 2026, allorché si valuteranno i risultati conseguiti dal nostro Paese utilizzando le prime tranche degli aiuti.

Le condizionalità previste non sono trattabili. Insomma, i soldi messi a disposizione dall’Ue non servono per acquisire consensi elettorali ma per rifare l’Italia, soprattutto per renderla più coesa. Salvini opera per esasperare le fratture che ci sono nel Paese, Draghi viceversa cerca di unire un Paese pericolosamente frammentato. Ci si chiede dall’Europa di chiudere una volta per tutte “un caso Italia” che incide negativamente sul processo di integrazione europea.

Senza riforme strutturali gli investimenti programmatisi bloccherebbero. Se dovesse prevalere la linea avventurosa di Salvini, cioè se non si faranno le riforme su fisco e giustizia, anche le riforme del lavoro e della Pubblica Amministrazione saranno impossibili. Chi fermando le riforme mette in discussione il flusso dei finanziamenti dovrà dare conto di ciò agli italiani. E magari dovrà farlo, tenuto conto della tempistica dei finanziamenti, in piena campagna elettorale. Questo governo sta riabilitando la politica, proponendo a fronte dei conflitti che travagliano il Paese soluzioni ragionevoli, da realizzare in un clima di larga condivisione. Chi si mette di traverso punisce il Paese, non la maggioranza larga.

Pensi che Salvini farà la crisi ?

Non credo perché ciò provocherebbe instabilità, lacerazioni anche all’interno della Lega ove l’ala governista pare sempre più forte. Salvini vuole soprattutto fare ballare il governo, dimostrare che anche lui fa opposizione cosi da restringere lo spazio che si va guadagnando la Meloni che ruba sempre più elettori alla Lega. Ma la strategia della destabilizzazione del Governo non paga e rischia di logorare soprattutto la Lega, perché Draghi ascolta tutti ma alla fine decide senza accettare estenuanti mediazioni. Un partito che si vuole presentare come partito di lotta e di governo con questo Premier rischia di abbaiare alla luna perché comunque il governo farà ciò che si è impegnato a fare.

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