Un doveroso ricordo bisogna riservare al capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, il giudice Rocco Chinnici, che 38 anni fa fu vittima di un attentato dinamitardo insieme alla scorta composta dal maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi e dall’appuntato Salvatore Bartolotta.
In quell’occasione rimase gravemente ferito ma riuscì a sopravvivere l’autista Giovanni Paparcuri, che successivamente diventerà un prezioso e fedele collaboratore del giudice Giovanni Falcone.
Nella strage morì anche il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi. Il magistrato saltò in aria mentre stava per uscire dallo stabile in via Federico Pipitone dove abitava a Palermo.
Verso le 8.05 vi fu una tremenda esplosione partita da una 126, parcheggiata davanti all’abitazione del consigliere istruttore e imbottita di ben 75 chili di tritolo.
Somigliò, per la ferocia, al terrorismo-stragista e che nel passato avvenne con la strage di Ciaculli nel 1963. “Palermo come Beirut” fu scritto sui giornali dell’epoca proprio per la somiglianza con quello che avveniva in Libano all’epoca.
L’assassinino di Rocco Chinnici fece seguito agli omicidi di uomini e servitori dello Stato che si opposero a Cosa Nostra con coraggio e a viso aperto.
Si rimase sconvolti dell’efferatezza di questa strage criminale e il segnale che la mafia diede fu davvero sconvolgente ed eclatante.
Rocco Chinnici ricopriva la carica di Capo dell’Ufficio Istruzione e aveva sempre avuto un comportamento probo e ligio al dovere, aveva maturato le sue convinzioni profonde che la mafia andava combattuta con una strategia complessiva dei poteri dello Stato e decise di dichiarare guerra alla mafia anche se, in quel momento, la consapevolezza antimafia era ancora timida e debole.
Il magistrato intuì in modo chiaro e netto che oltre ai boss e ai picciotti, c’era un “terzo livello”, dei “colletti bianchi” che colludeva e dirigeva la mano armata di Cosa nostra.
Prese coscienza che vi era una regia occulta che agiva e che rafforzava l’organizzazione criminale. In tal senso, Chinnici divenne l’autore e ispiratore del cosiddetto “pool antimafia”, che poi fu confermato, reso operativo e attuato dal suo successore Antonino Caponnetto.
Di quel pool di magistrati fecero parte all’inizio Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello e, lo stesso Caponnetto, subito dopo la morte di Chinnici decise di inserire anche Leonardo Guarnotta.
Si cominciò con un mastodontico e poderoso lavoro investigativo con un rapporto chiamato “Michele Greco+161” che, poi, fu la base del più grande maxi processo alla mafia portato avanti soprattutto da Falcone e Borsellino.
Il giudice fu tra i primi a cercare di approfondire e di studiare il fenomeno mafioso nel tentativo di trovare tutte le interconnessioni tra i grandi omicidi che si verificarono in quegli anni.
“Non si stancò mai di ripetere, ogni volta che ne ebbe occasione, che solo un intervento globale dello Stato –affermò Paolo Borsellino parlando di Chinnici -, nella varietà delle sue funzioni amministrative, legislative ed, in senso ampio, politiche, avrebbe potuto sicuramente incidere sulle radici della malapianta, avviando il processo del suo sradicamento”.
Le inchieste portate avanti da Chinnici si distinsero e furono incentrate in special modo sul rapporto tra mafia e politica. Il magistrato indagò senza esitazioni sui potentissimi cugini Ignazio e Nino Salvo, ricchi esattori e considerati la “cerniera” tra la mafia e la politica, come peraltro fu dimostrato da una sentenza del 2000, in cui è stato ricostruito anche il movente per cui fu ucciso il magistrato.
Infatti, per la strage di via Pipitone, la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò all’ergastolo esecutori e mandanti.
Per attuare il disegno criminale si mosse la cupola con Salvatore Riina, Bernardo Provenzano ed Antonino Madonia, e fu proprio quest’ultimo a premere il telecomando della bomba.
Le condanne divennero definitive in Cassazione nel 2003. I pm, Nino Di Matteo e Anna Maria Palma, rappresentarono l’accusa nel processo di primo grado su questa strage e misero in luce il fatto che “l’uccisione del giudice Chinnici fu voluta dai cugini Ignazio e Nino Salvo e ordinata dalla cupola mafiosa, per le indagini che il magistrato condusse sui collegamenti tra la mafia e i santuari politico-economici”.
A tal proposito si accertò, con sentenze passate in giudicato, che i cugini Salvo erano con certezza “uomini d’onore della famiglia di Salemi. Avevano un ruolo di raccordo nel panorama politico siciliano come esponenti di spicco di un importante centro di potere politico-finanziario tra Cosa nostra ed una certa classe politica”.
Fu disvelato sul piano giudiziario il collegamento con la corrente andreottiana della Democrazia Cristiana. Furono poi, grazie alle importanti rivelazioni del collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca, ex capo mandamento di San Giuseppe Jato, trovati riscontri dallo stesso Nino Di Matteo delle dichiarazioni del pentito con numerosi dettagli dell’aspetto organizzativo dell’attentato.
Brusca raccontò il retroscena parlando di una riunione tra Nino Salvo, il padre Bernardo Brusca e Totò Riina in cui si decise l’eliminazione del giudice e in cui al termine della quale gli fu detto da Totò Riina: “Finalmente è venuto il momento di rompere le corna a Chinnici, mettiti a disposizione di don Nino”.
Il magistrato non si limitò alla sua azione innovativa giudiziaria, fu anche un “pioniere” della lotta culturale che portò avanti nelle scuole per sensibilizzare i giovani sui rischi della tossicodipendenza e sui collegamenti tra droga e mafia.
Chinnici affermò in un celebre discorso: “Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai”.
Il suo impegno intelligente fu un modello di promozione della cultura della legalità e un esempio fulgido, attuale e lungimirante che pose le basi del lavoro, proseguito da Falcone e Borsellino, con il maxiprocesso che mise per la prima volta alle corde Cosa Nostra.