Di Pietro Carlomagno
In molti chiedono e offrono pareri e giudizi sul nuovo disegno di riforma fiscale e tutti snocciolano dati, aliquote, ponderazioni e proiezioni, con tecniche sapienti e dottrinale professionalità per evidenziare chi ci perde e chi ci guadagna, dove spesso il metro di misura della presunta equità o equilibrio appare però volatile e contradditorio a seconda dell’interesse che lo misura, dove l’utilità del peso è affidata alla tara più che alla merce, alla parte più che al paese, coscienti che l’interesse più rumoroso si sostituirà alla programmazione, divenendo esso stesso il senso dell’interpretazione legislativa.
Un approccio del genere, se proprio si vuole chiudere un occhio, può passare su piccole manovrine fiscali con cui si mira ad alcuni aggiustamenti di mercato, agevolazioni di settori o categorie, ma non su una “Riforma”, perché se “Riforma Fiscale” deve essere, non potrà solo essere banalmente ridurre da qualche parte le tasse, e non si potrà continuare ad avere uno sguardo corto, trovando (più o meno facilmente) finanziamenti temporanei a vantaggio di chi, sempre temporaneamente, magari garantisce un maggior consenso.
Il nostro fisco (e ve lo sta dicendo un commercialista) è troppo complicato, non sempre coerente (…quasi mai) e con una pressione fiscale alta, dunque la sua riforma è ormai urgente e non più rinviabile, ed una riforma che punti a ridurre la pressione fiscale richiede invece finanziamenti permanenti, che rendano solido strutturalmente non solo il sistema produttivo da garantire e da cui garantirsi l’entrata, ma rendere efficiente anche la spesa pubblica, una riforma che oltre a parlare di “Agenzia delle Entrate” inizi a parlare anche di “Agenzia delle Uscite”, che trovi il coraggio di porre fine a misure di consenso strumentali, ideologiche, dannose, desuete e non più sostenibili che fanno male all’economia del paese e ai diritti che al contrario dovrebbero tutelare, partendo certo anche dalle aliquote e rimodulazioni delle esenzioni e crediti fiscali, ma passando poi dalle raccomandazioni dell’OCSE, che auspica una riduzione della complessità del sistema e ne abbassi il costo in modo strutturale (riduzione del cuneo fiscale), con particolare rafforzamento della lotta all’evasione (problemone), condizionando, come inevitabilmente compete alla programmazione finanziaria, le riforme sugli attuali paleolitici ammortizzatori sociali, dalla cassa integrazione agli aberranti recenti interventi legislativi di decrescita infelice come redditi di cittadinanza, o inique quote cento, false flat-tax e simili promozioni del lavoro in nero.
Una riforma Fiscale che deve essere espressione e motore di quel richiamato patto economico e produttivo per il paese a sostegno di investimenti nel lavoro, infrastrutture, ricerca, crescita e semplificazione della burocrazia, oggi più che mai necessario oltre che opportunità imperdibile per mettere a frutto il PNRR.
La verità è che ormai tutte le democrazie cosiddette mature, oggi appaiono vecchie, e l’Italia una volta tanto è in buona compagnia, perché cittadini e parti sociali pare si siano sedute su sistemi consolidati che hanno consentito l’evoluzione dei diritti e della civiltà rispetto ai sistemi dittatoriali e medioevali da cui sono nate, ma che oggi hanno bisogno di adeguarsi ai nuovi contesti se vogliono conservarne tutta la loro grandezza e spirito. Un po’ come il fallimento delle primavere arabe che non hanno trovato i territori pronti per far nascere le nuove democrazie, noi non siamo pronti per adeguare e rinvigorire il nostro spirito democratico al nuovo ciclo, perché non siamo pronti a sostenere le buone Politiche che tutti invochiamo, ma che restano improponibili, soddisfatti di avere tutto sommato la garanzia dei propri diritti ed interessi che nei secoli scorsi non erano contemplati, ma non sempre si è disposti a riconoscere che la rappresentanza politica non necessariamente debba coincidere con la rappresentanza dell’interesse.
Questa cultura fa si che, ad esempio, si parla di patriottismo e nazione solo per invocare, illusoriamente e strumentalmente, una sorta di diritto acquisito a risoluzione di problemi personali che la collettività non risolve, contraddicendo puntualmente i valori di appartenenza e di storia che dovrebbe invece rappresentare; quando si parla di riforma della scuola il primo pensiero è sempre legato alla problematica dei docenti ancor prima che l’interesse degli alunni; quando si parla di riforme istituzionali il nodo resta il riparto ponderato della rappresentanza più che il come onorare il popolo rappresentato; quando si parla di riforma della pubblica amministrazione ci si aspetta o qualche adeguamento salariale del pubblico impiego o le famose procedure di snellimento amministrativo i cui adempimenti, come accade nell’inversione dell’onere della prova, saranno a cura dei cittadini; e quando si parla di riforma fiscale, le valutazioni su chi ci perde o chi ci guadagna non hanno mai come soggetto il paese e, come accade nelle riforme demaniali, ci ritroveremo sempre sotto lo scacco dei bagnini.
Quindi, come spesso mi capita di ripetere, visto che il maestro appare solo quando l’allievo è pronto, probabilmente avremo una Riforma Fiscale all’altezza di uno stato democratico degno, solo quando, passata la paura, nessuno di noi si tirerà più indietro.