In Mali i militari detengono il presidente e il primo ministro. A soli nove mesi dall’ultimo golpe, le notizie da Bamako scuotono il paese e rischiano di precipitarlo in una crisi con effetti imprevedibili sul Sahel.
A Bamako, in Mali, i militari scontenti del nuovo governo annunciato dalle autorità di transizione hanno rimosso con la forza il presidente e il primo ministro. Lo ha confermato poco fa in un comunicato, il vicepresidente della transizione, colonnello Asimi Goita, affermando di essere intervenuto “per il bene del paese” e assicurando che “il calendario della transizione sarà rispettato”.
Il presidente Bah N’daw e il primo ministro Moctar Ouane sono stati condotti alla caserma di Kati, centro dell’apparato militare del Mali, a poche miglia da Bamako. Una circostanza che preoccupa: proprio a Kati, infatti, il presidente eletto Ibrahim Boubacar Keita (IBK) era stato portato via con la forza meno di un anno fa, il 18 agosto 2020, dai colonnelli golpisti per annunciare le sue dimissioni.
La ribellione è cominciata poche ore dopo l’annuncio di un rimpasto del governo di transizione, che aveva escluso due militari che avevano preso parte al colpo di stato dell’agosto scorso. In una dichiarazione congiunta, missione Onu (Minusma), Unione Africana, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania e Comunità economica dell’Africa occidentale (Ecowas) hanno chiesto il “rilascio immediato e incondizionato” della leadership civile del paese, affermando in anticipo che “la comunità internazionale rifiuterà qualsiasi atto di coercizione, comprese le dimissioni forzate”.
Gli arresti aggiungono incertezza nel paese dell’Africa occidentale, teatro di quattro colpi di stato dall’indipendenza e in cui gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico controllano ampie aree rurali delle regioni centrali, al confine con Burkina Faso e Niger. N’Daw e Ouane erano entrati in carica lo scorso settembre dopo che la giunta militare responsabile del colpo di stato ai danni di IBK – sotto pressione regionale e la minaccia di sanzioni – aveva accettato di trasferire i poteri a un governo civile di transizione.
Il leader della giunta golpista, Assimi Goita, era così diventato vice presidente e ad altri due militari determinanti nel colpo di stato – Sadio Camara e il colonnello Modibo Kone – erano stati assegnati rispettivamente i portafogli di Difesa e Sicurezza. Nel rimpasto di lunedì scorso – prima del quale i militari non erano stati informati riferisce il sito di informazione Mali Actu – Camara e Kone erano stati sostituiti. E ora gli ultimi sviluppi fanno temere un nuovo colpo di stato, oltre che la sospensione dei processi di transizione verso le elezioni del prossimo febbraio.
Nonostante la rimozione di Camara e Kone, nel nuovo governo di transizione i soldati avrebbero controllato comunque i ministeri della Difesa, della Sicurezza, dell’Amministrazione territoriale e della Riconciliazione nazionale. Ma allora cosa spiega il colpo di mano dei militari?
Fonti vicine alla presidenza riferiscono all’Agenzia France Presse che “con il rimpasto, il presidente di transizione e il suo primo ministro hanno voluto inviare un messaggio deciso: rispettare la scadenza per la transizione rimane la priorità”. Secondo la fonte, “era necessario un riequilibrio delle posizioni di Difesa e Sicurezza”, i cui nuovi titolari “non sono figure emblematiche della giunta”.
A metà aprile, le autorità di Bamako hanno annunciato per il 31 ottobre un referendum su una revisione costituzionale da tempo promessa e hanno fissato per febbraio-marzo 2022 le elezioni presidenziali e legislative che dovranno sancire il ripristino dell’ordine democratico nel paese. Ma si sono diffusi timori sulla loro capacità di rispettare queste scadenze, in un contesto in cui la violenza jihadista continua e al malcontento sociale si affiancano nuovi echi di protesta politica.
“Quello che sta accadendo oggi è una fotocopia del 18 agosto 2020: i militari vogliono dimostrare ancora una volta alle autorità civili che sono loro a comandare”, dice a Le Monde un residente di Kati. “Si sono aggrappati al potere. E poiché non hanno ottenuto ciò che volevano attraverso i negoziati, hanno cercato di farlo con le armi”.
Gli eventi di lunedì sono l’ennesimo colpo per un paese già provato e che acuisce i timori per la tenuta di una transizione che si era posta obiettivi ambiziosi come l’approvazione di una nuova Costituzione da sottoporre a referendum e la modifica della legge elettorale entro ottobre.
Nelle ultime settimane questo programma aveva sollevato le perplessità di diversi osservatori. Una possibile soluzione alla crisi – avvertono gli analisti – potrebbe prevedere l’uscita di scena del primo ministro e la creazione di un governo in cui i militari si sentano correttamente rappresentati.
In fondo, la posta in gioco riguarda proprio lo status quo dell’esercito nella transizione. Rappresentanti dell’Ecowas sono arrivati oggi a Bamako per parlare con i golpisti e ripristinare la stabilità nel minor tempo possibile. E a preoccuparli non è solo la situazione nel paese: “Il Mali è l’epicentro della crisi nel Sahel. Se il quadro maliano peggiora, con una situazione ciadiana molto incerta e un nuovo governo insediato in Niger da poco, le variabili cominciano ad essere troppe – osserva l’analista Boubacar Salif Traoré– Quindi, da qualche parte, devi trovare il giusto equilibrio in modo che non crolli tutto allo stesso tempo”.
Al di là di un paradosso evidente – quello, cioè, di un colpo di stato contro istituzioni non democratiche, assicurate al potere da un intervento militare degli stessi alti ufficiali di Kati, solo nove mesi fa – la lettura degli eventi di queste ore è perfettamente lineare. La dimostrazione di forza del vicepresidente della transizione, il colonnello Assimi Goita, riflette la volontà dei militari golpisti di continuare a esercitare un peso preponderante e un’influenza assoluta sugli equilibri politici in Mali, censurando ogni tentativo di aggirarne autorità e prerogative.
È davvero immaginabile che un processo di transizione fondato su queste premesse possa portare all’apertura una nuova stagione democratica tra nove mesi?