Home In evidenza L’Italia: Una Repubblica fondata sul “non” lavoro. Cresce il popolo dei Neet

L’Italia: Una Repubblica fondata sul “non” lavoro. Cresce il popolo dei Neet

by Romano Franco

E’ una tragedia che non cessa di esistere quella che vede coinvolti gli oltre 2,4 milioni i giovani, di età compresa tra i 15 ed i 29 anni, che non studiano e non lavorano.

E’ un numero enorme, soprattutto se si va ad aggiungere al 40,5% di disoccupazione giovanile e al 66% di giovani che vivono ancora insieme ai genitori.

E lo scenario, per quanto roseo venga descritto dalla stampa, non può di certo migliorare. Le prospettive di occupazioni dignitose vengono continuamente minate da politiche che introducono contratti di lavoro capestro, nessun salario minimo, tecnologia che si sostituisce alla forza lavoro e IA che pare quasi più efficiente dell’essere umano.

Il mondo che si prospetta diventa sempre più di pochi e le difficoltà che incontrano le nuove generazioni, ad entrare nel circuito occupazionale, sono enormi e continuano ad aumentare a dismisura.

Basti pensare che nel lontano 2008 il numero di Neet (Not in education, employment or training), ovvero di ragazzi di età compresa tra i 15 ed i 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono corsi di formazione, era di 1.850.000 persone.

Dopo gli infiniti lockdown e dopo la gigantesca crisi, che ha innescato la conseguente inflazione, sono diventati 2.400.000 gli italiani che rimangono fermi (23,8%). Numeri che ci hanno fatto guadagnare di diritto il triste primato come i peggiori d’Europa.

La maggior parte di questi ragazzi si trova in regioni del Sud, prime fra tutte troviamo la Calabria che, con la disoccupazione giovanile che sfiora il 60%, presenta un tessuto produttivo estremamente carente.

Il sistema è lento e stagnante e non dispone dei mezzi giusti per poter distribuire lavoro (ricchezze) e dare allo stesso tempo incentivo e forza lavoro a quelle aziende in difficoltà.

In questo lo Stato ha le sue grosse falle e non dispone dei mezzi necessari per poter dare lavoro, ai cittadini in difficoltà; e forza lavoro, a quelle imprese con l’acqua alla gola. In questo il reddito di cittadinanza poteva essere un buon incentivo per tutti, impiegati e aziende.

Le imprese italiane, come soprattutto le piccole imprese, sono alla costante ricerca di profili con esperienze pregresse e non dispongono degli incentivi necessari per assumere nuova forza lavoro.

Ci avevano provato con i pensionamenti anticipati, ma ciò non ha fatto altro che gravare sul debito pubblico aumentandone la spesa, oramai ai massimi storici.

Incentrare un sistema sul “do ut des” e coinvolgere a pieno titolo lo Stato potrebbe essere una soluzione, una specie di contratto tra lo Stato e le imprese tale da renderle tutte a partecipazione statale che vengono aiutate dagli enti locali nel momento del bisogno e che distribuiscano ricchezza alla comunità nei periodi più prosperi.

Ovviamente per fare ciò bisognerebbe strutturare un sistema di leggi giuste per osteggiare il clientelismo e bisogna, soprattutto, mirare al progresso mettendo sempre i dovuti anticorpi per proteggere, allo stesso tempo, aziende e sistema dai furbetti.

Ma, in uno scenario meno utopistico, si potrebbe adottare un sistema algoritmico a scaglioni che tenga conto, facendo un confronto tra ricavi e assunzioni, delle tasse da pagare per ogni azienda; così, se l’azienda ha:

  • Molto utile e tanti dipendenti paga il giusto,
  • Molto utile e pochi dipendenti paga molto,
  • Poco utile e pochi dipendenti paga pochissimo e può usufruire della misura del reddito di cittadinanza per pagare parte degli stipendi,
  • Utile in calo e zero dipendenti, se ci sono le condizioni, incentivi e forza lavoro grazie al reddito di cittadinanza;

Spesso si è parlato della possibilità di inserire uno strumento di flessibilità che potrebbe contribuire a rendere più dinamico il mercato del lavoro italiano, rimasto impantanato nelle sabbie mobili della burocrazia.

Ma purtroppo levate le soluzioni superficiali di qualche politicante del caso, non si è fatto poi molto sul tema.

Così nel frattempo nuovi bambini nascono, sempre di meno a causa della scarsa sicurezza economica dei genitori e della scarsa prospettiva di un futuro; crescono, in una scuola sempre più distante, assente e in Dad; lavorano, se sono fortunati, in molti vivendo di stenti e in uno “Stato” frustrante; e, infine, muoiono di rimpianti.

E allora si chiede, ai vari politicanti, con questi numeri, non sarebbe il caso di cambiare il primo articolo della nostra Costituzione?

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