La figura di Napoleone Colajanni ha rappresentato una gigantesca personalità politica, nonchè un illustre uomo di cultura del Mezzogiorno d’Italia che ha percorso oltre mezzo secolo di vicende iniziate dopo la metà dell’ottocento prima dell’unità d’Italia sino al 1921 quando lasciò la vita terrena .
Colajanni nacque il 27 aprile nel 1847 a Castrogiovanni, comune che poi durante il periodo fascista venne denominato Enna. Fu un grande parlamentare fra i più autorevoli, prestigiosi e ascoltati e fu anche un prolifico e prestigioso giornalista, un arguto polemista, nonché un acuto sociologo ed economista, un rigoroso professore universitario insegnando statistica nelle Università di Palermo, Napoli e Messina.
Svolse anche una proficua e intensa attività di medico della sua città natale. A soli tredici anni subì la fascinazione della figura di Giuseppe Garibaldi scappando di casa e tentando di proprio durante i moti di Palermo dopo lo sbarco a Marsala dei mille.
Nel 1862 proseguì la sua adesione alle idee propugnate dall’eroe dei due mondi e quando Garibaldi passò da Castrogiovanni per Colajanni fu naturale chiedere l’arruolamento coi garibaldini ad appena 15 anni.
Raggiunse in tal modo l’esercito dei ribelli proprio sull’Aspromonte, dove venne catturato e fatto prigioniero dalle truppe governative che lo deportarono alla Palmaria.
Nel 1866 fu rilasciato e decise di arruolarsi tra le fila dei carabinieri genovesi, prendendo così parte nella terza guerra d’indipendenza agli scontri di Lodrone, Condino e Bezzecca.
La sua propensione alla vita militare non cessò e nel 1867 ritornò a fianco di Garibaldi nella campagna dell’Agro Romano, ottenendo una medaglia d’argento al Valore Militare.
Due anni dopo, esattamente il 26 febbraio 1869, fu arrestato nuovamente a Napoli per aver preso parte da studente di Medicina a una cospirazione per la nascita della Repubblica.
Rimase in carcere fino al 20 novembre quando venne liberato in seguito all’amnistia emanata in occasione della nascita dell’erede al trono Vittorio Emanuele III.
Ebbe modo nel frattempo di conseguire la laurea in Medicina e così partì per l’America del Sud. Tuttavia la sua indole inquieta e fervida non si dissipò e, quindi, decise di rientrare in Italia per dedicarsi allo studio della sociologia svolgendo un’intensa e appassionata attività politica, già iniziata nel 1872 con l’elezione al Consiglio Comunale di Castrogiovanni e dieci anni dopo sancita dall’elezione come consigliere provinciale.
La sua levatura morale e la sua credibilità immensa lo condussero ad essere eletto nel 1890 per la prima volta deputato alla Camera del Regno.
Intanto proseguì la sua carriera accademica, diventando professore di Statistica all’università di Palermo nel 1892. Avversò sempre con vigore e forza sia Francesco Crispi che Giovanni Giolitti, schierandosi sempre dalla parte dei lavoratori, per la libertà e per la difesa degli interessi del Mezzogiorno.
Ebbe il coraggio di denunciare senza nessun timore con durezza e con coerenza lo scandalo della Banca Romana, il primo grande scandalo della vita pubblica italiana in cui si manifestò un intreccio perverso di indicibili affarismi fra politici e banchieri e la sua azione parlamentare fu determinante nel provocare la caduta del primo governo Giolitti (1893).
Dal punto di vista culturale e sociale, pur essendo un positivista, respinse indignato la tesi sul piano antropologico di Cesare Lombroso dell’arretratezza meridionale dovuto alla “razza”.
La sua elaborazione teorica fu cospicua e ricca e la sua proposta di riforma dello Stato si fondava su due capisaldi che erano il repubblicanesimo mazziniano e l’idea di un federalismo moderno che si rifaceva agli ideali di Carlo Cattaneo.
Molto importante e innovativa fu la sua idea di valorizzare le autonomie locali con un marcato decentramento amministrativo per mitigare il centralismo proposto dalla Destra storica.
Dal 1891 fu anche il direttore del giornale “L’Isola di Palermo”, svolgendo un’opposizione editoriale vicino agli ideali del socialismo moderato e riformista.
E da questo punto di vista fu naturale conseguenza il suo legame di forte amicizia con Filippo Turati, con cui condivise un periodo di militanza nelle file socialiste tra il 1882 e il 1893.
Questo vicinanza durò poco perché successivamente polemizzò aspramente proprio con il padre del socialismo italiano, a causa di divergenze ideologico-politiche non sanabili.
Lasciò, dunque, i socialisti per aderire, in maniera più ferma e convinta, al partito repubblicano di cui divenne in breve tempo un capo riconosciuto e carismatico in Parlamento.
Fondò, altresì, ” La Rivista Popolare”. Si mosse con coraggio e intransigenza promuovendo iniziative parlamentari come l’inchiesta sull’Eritrea (1891) e la denuncia proprio dello scandalo della Banca Romana (1892).
Fu sicuramente uno dei fondatori e dei leader più influenti e ascoltati dei Fasci dei lavoratori siciliani. Bisogna dire che ebbe sempre rapporti conflittuali con l’altro siciliano che era Francesco Crispi, rottura iniziata nel 1894 per lo stato d’assedio in Sicilia.
Nell’aprile del 1895 prese parte da promotore al congresso fondativo del Partito Repubblicano Italiano, quando fu eletto Giuseppe Gaudenzi come primo segretario politico.
Nel 1900 stampò un libro denuncia con il titolo diretto ed evocativo di allora: “Nel Regno della Mafia” che è stata un’opera coraggiosa e incisiva di questo grande intellettuale politico che ancora oggi appare utile e valida, per l’acutezza dei giudizi e per le soluzioni prospettate.
Colajanni ha formulato in questo libro un importante contributo allo studio del fenomeno mafioso che ancora oggi è un memorandum assai qualificato modello ed esempio per tutti coloro che intendono combattere la piovra sul piano giudiziario e diffidando di coloro che non fanno seguire i fatti alle parole contro la mafia.
In Colajanni sul piano della formazione culturale e politica convivevano gli ideali mazziniani repubblicani intrisi del socialismo positivista ed evoluzionista di fine ‘800.
Si impegnò sempre in prima linea senza mai abbandonare la causa dei “carusi”, dei lavoratori ,operai delle miniere di zolfo, dei pastori, dei braccianti e dei contadini poveri del latifondo, anticipando e promuovendo il risveglio morale della lotta per il riscatto morale e civile della Sicilia e dell’intero Sud.
Quindi avversò sempre la politica di Giolitti che accusava di privilegiare lo sviluppo economico del Nord Italia. Venne sempre rieletto alla Camera, per dieci legislature, fino alla morte.
Colajanni condusse senza esitazioni e in modo intrepido una battaglia contro la mafia che, dal suo punto di vista, era prima di tutto un problema politico ancorché criminale e, per lo studioso, nella lucida azione parlamentare rimarcò la centralità della questione meridionale e il superamento del dualismo economico e sociale affermando che “la democrazia resterà incompiuta sino a quando coesisteranno due Italie”.
E’ stato un vero profeta degli eterni problemi italiani con i persistenti squilibri territoriali e sociali e con la riaffermazione della necessità di una lotta senza quartiere del degrado morale.
La coraggiosa azione e l’opera teorica di Colajanni non possono essere dimenticate. In questo saggio sulla mafia disse: “Il Regno della mafia in Sicilia non cesserà se non il giorno in cui con una vera instauratio ab imis (ristrutturazione dalle fondamenta, ndr) i Siciliani acquisteranno la libertà vera, il diritto e i mezzi di punire i prepotenti, di mettere alla gogna i ladri e di assicurare a tutti la giustizia giusta”.
Nonostante la sua formazione antimilitarista in occasione della prima guerra mondiale, fu un convinto e fervido sostenitore dello schieramento interventista, poi, sviluppò una forte polemica contro le simpatie bolsceviche da parte del Psi.
Il nipote omonimo fu parlamentare della Repubblica con il PCI, mentre il pronipote Pompeo Colajanni fu comandante partigiano in Piemonte e, anch’egli esponente del PCI, sottosegretario nei governi Parri e De Gasperi.