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La Costituzione, le Regioni e il fallimento degli statuti speciali nelle isole

by Maurizio Ciotola

Dopo circa diciannove anni dalle modifiche costituzionali del titolo V, sulle Regioni, abbiamo il dovere di tirare le somme per comprendere i danni causati da tale riforma sul territorio. 

In realtà già nel 2001 avremmo dovuto e potuto valutare che questa, come qualsiasi altra riforma parziale e monca della Costituzione, non avrebbe potuto condurre ad altri esiti se non a quelli che i dati economici e sociali tristemente registrano nel particolare.

Per il progetto di società che originariamente la Carta costituzionale definisce con chiarezza e puntualità, nella sua organicità sostanziale, qualsiasi sua riforma tesa a mutare l’equilibrio in essa sotteso, senza addivenire ad un nuovo punto di stabilità, è di per sé fallimentare.

Il presupposto essenziale per cui avviare la riforma di una Costituzione nata da un impianto assembleare, democratico e competente, in cui in una accesa dialettica politica sono state definite le linee essenziali di un progetto sociale ed economico, non può derivare da risposte emotive ad una emotività popolare.

Così come si è coperto di ridicolo chi ha tentato con una forzatura politica l’abbattimento del Senato, fallendo l’obiettivo, ugualmente sappiamo che la modifica illiberale e reazionaria del numero dei rappresentanti in Parlamento, che converge verso un’idea di paese/azienda, in antitesi con i principi fondanti della Costituzione repubblicana, è volta al fallimento democratico ed istituzionale.

Le Regioni nel nostro paese si differenziano ancora per sviluppo ed equità sociale, che attraverso una rappresentazione geografica potremmo esplicitare attraverso una linea che separa il Nord con il Sud, isole comprese. Le autonomie regionali, nella loro diversità e forza all’interno dello Stato unitario, non hanno partorito soluzioni accettabili o compensato il divario con le altre Regioni, se non nei termini di classi e di élite. Anche qui, tra le cinque Regioni dotate di autonomia speciale, la netta separazione tra Nord e Sud mette in luce quanto, non le norme, ma gli uomini e la loro classe dirigente, siano incapaci di colmare tale iato storico. L’osservatorio nazionale sulla verifica della modifica costituzionale del titolo V lascia pochi dubbi nel comprendere che con essa i legami clientelari e l’inazione locale sono accresciuti fino a incrementare quel divario che lo Stato unitario avrebbe dovuto colmare, secondo l’iter costituzionale definito. Il Pil e soprattutto l’equità sociale, le diseguaglianze in questi ultimi diciotto anni sono accresciute esponenzialmente nelle regioni del Sud. Nel contempo le Regioni con un’autonomia speciale hanno proseguito nel loro cammino secondo il loro trend iniziale, positivo per la Valle d’Aosta, il Trentino Alto Adige, il Friuli Venezia Giulia, negativo per la Sicilia e la Sardegna.

La modifica del titolo V ha introdotto ambiti di competenza e concorrenza per le Regioni a statuto ordinario non dissimili da quelle assegnate alle Regioni a statuto speciale e ha influito negativamente sull’equità economica e sociale dell’intero paese. Del resto, tale conclusione poteva essere prevista anche diciotto anni fa, al momento del varo della riforma, se solo avessimo avuto il buon senso di osservare il funzionamento delle Regioni a statuto speciale, nella loro specifica divergente ed evidente differenza tra Nord e Sud.

Il decentramento in un paese in cui l’infiltrazione mafiosa e clientelare, che viaggiano sempre in accordo, costituisce una matrice sociale irrisolta e non può che determinare un accentramento di poteri verso le mafie locali, la cui incisività, per incapacità di tutela delle istituzioni repubblicane, è totalizzante. La pressione e la violenza che sul piano locale subiscono i pochi soggetti politici liberi è tale per cui risulta impossibile arginare o impedire una gestione malavitosa e clientelare delle aree amministrate. Le istituzioni statali presenti sul territorio, molto spesso volutamente insufficienti e inadeguate, quando non sono anche loro della partita non garantiscono legittimità e giustizia, ma la esercitano come se essa dovesse rispondere al signore del feudo, inteso come soggetto egemonico politico ed economico della regione medesima.

Questo è avvenuto e avviene nelle Regioni i a statuto autonomo come la Sicilia e la Sardegna, nelle loro differenti specificità, di cui non riscontriamo accezioni positive. Questo poteva essere evitato per le Regioni a statuto ordinario soggette alla modifica costituzionale. Un errore cui è possibile porre rimedio ripristinando le condizioni iniziali definite in Costituzione per le Regioni, fino a compiere una revisione degli statuti speciali per quelle Regioni che della stessa autonomia hanno ingiustamente abusato, incrementando drasticamente il divario, cui per statuto avrebbero dovuto colmare.

Una compiuta e imparziale analisi condurrebbe anche il meno saggio e competente legislatore a definire una norma attraverso cui bocciare e rimuovere tali autonomie, se utilizzate persistentemente per fini indebiti e negativi, come è possibile constatare per Regioni quali la Sicilia e la Sardegna.

Una necessaria responsabilizzazione delle istituzioni che, quando tale gestione presenta incongruenze e abusi amministrativi, dovrebbe tradursi in una riduzione degli spazi di autonomia loro demandati, senza trasferire, come invece oggi accade, il peso di tali abusi sul contribuente.

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