Carlo Alberto dalla Chiesa è stato un eroe militare e civile dell’Italia moderna, un simbolo luminoso e vincente della lotta al terrorismo oltre che una martire della violenza mafiosa.
Il padre fu un generale dei Carabinieri, ed entrò nell’Arma durante la seconda guerra mondiale partecipando anche alla Resistenza antifascista. Nel luglio del 1943 si laureò in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bari, città in cui il padre Romano, in quel momento, era comandante della locale Legione dell’Arma.
Nel 1944 fu inviato a comandare una tenenza a Bari, dove riuscì a conseguire la seconda laurea in scienze politiche. Dopo il conflitto mondiale combatté il banditismo prima in Campania e poi in Sicilia. Da capitano, indagò sulla scomparsa a Corleone, che, poi, si rivelò un omicidio, del sindacalista socialista Placido Rizzotto, e riuscì a fare incriminare l’allora boss emergente della mafia Luciano Liggio.
Visse la sua carriera di ufficiale in varie sedi quali a Firenze, Como, Roma e Milano. Mentre tra il 1966 e il 1973 fu nuovamente trasferito in Sicilia con il grado di colonnello e fu nominato comandante della Legione Carabinieri di Palermo, così indagò, con rara intelligenza investigativa, su Cosa nostra ed ebbe modo di conoscere in profondità il fenomeno mafioso. Nel 1970 svolse indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro di cui non si è mai ritrovato il cadavere e che presumibilmente fu ucciso da sicari di Cosa nostra probabilmente per i segreti scoperti sul caso Mattei.
Le indagini furono svolte, cosa a volte rara nel nostro Paese, con ampia collaborazione fra i Carabinieri e la Polizia che furono diretti dal commissario Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo, che verrà ucciso qualche anno dopo dalla mafia.
Nel 1971 indagò anche sull’omicidio del procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione e sempre nello stesso anno partecipò alle indagini del caso del mostro di Marsala Michele Vinci, che rapì e uccise tre bambine a Marsala, indagini che furono coordinate dall’allora procuratore di Marsala Cesare Terranova.
Dalla Chiesa redasse nel 1974 un importante rapporto- dossier dei 114 che condusse all’arresto di decine di boss mafiosi e la sua innovazione fu quella di proporre di non mandare i mafiosi non passibili di arresto al confino nelle città del Nord ma che fossero destinati nelle isole di Linosa, Asinara e Lampedusa.
Divenne generale di brigata a Torino dal 1973 al 1977 e fu il principale protagonista della lotta contro le Brigate Rosse. Infatti, su sua proposta, venne creato il “Nucleo Speciale Antiterrorismo” attivo tra il 1974 e il 1976 e il suo metodo di lavoro fu sempre quello di infiltrare alcuni uomini dentro le organizzazioni terroriste in modo da conoscere anticipatamente gli schemi ideativi e organizzativi e prevenirne l’attuazione.
Venne promosso generale di divisione e nel contempo fu nominato nel 1978 coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta contro il terrorismo, con poteri speciali. Dopo l’omicidio di Aldo Moro furono concessi poteri speciali a Dalla Chiesa nella lotta al terrorismo e da certi settori della sinistra si disse che fu “un atto di repressione”.
Nel 1978 visse il grande dolore della morte della moglie Dora stroncata a Torino da un infarto e per il Generale fu uno dei momenti più difficili della vita.
Dal 1979 al 1981 comandò la Divisione Pastrengo a Milano e ottenne grandi risultati nella lotta alle Br ritrovando anche in Via Monte Nevoso a Milano, in un covo delle Br, i verbali dell’interrogatorio di Aldo Moro. Riuscì ad arrestare molti brigatisti importanti e responsabili degli efferati delitti di quegli anni di piombo tra cui anche uno dei terroristi pentiti Patrizio Peci che, poi, con la legge che fu approvata su chi collaborava con la giustizia consentì di sgominare le Br in Italia.
Tra il 1981 e il 1982 fu nominato vicecomandante generale dell’Arma che è la massima carica per un ufficiale dei Carabinieri, poiché all’epoca il Comandante Generale dell’Arma doveva necessariamente provenire ope legis (per effetto di una norma di legge) dalle file dell’Esercito e mantenne questa carica fino al 5 maggio 1982.
Infatti fu nominato il 6 aprile 1982 dal Consiglio dei ministri prefetto di Palermo e fu posto contemporaneamente in congedo dall’Arma in un momento storico in cui la Sicilia, soprattutto Palermo, era devastata dalla violenza mafiosa e dal dominio di Cosa nostra nel territorio.
Alla fine di aprile, si insediò in città, il giorno dell’omicidio di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci che fu uno dei grandi sostenitori della sua nomina a prefetto. Nonostante le titubanze iniziali, Dalla Chiesa accettò poiché gli furono promessi dal Ministro, Virginio Rognoni, poteri speciali efficaci mai usati prima nella lotta di contrasto a Cosa nostra.
Nel luglio di quell’anno si sposò a Trento in seconde nozze con Emanuela Setti Carraro. Immediatamente si rese conto che lo Stato non mantenne le promesse fatte e gli impegni assunti e che non ebbe mai nessun sostegno concreto. Uscì allo scoperto e dichiarò senza peli sulla lingua: “ Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì, se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi, non possiamo delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti”.
Nonostante fosse lasciato solo ad operare, nel luglio del 1982, Dalla Chiesa dispose che fosse trasmesso alla Procura di Palermo il cosiddetto rapporto dei 162 che stese congiuntamente con la polizia e i carabinieri, rapporto in cui si fece luce con precisione scrupolosa sull’organigramma delle famiglie mafiose palermitane.
Nell’agosto del 1982, il generale rilasciò un’intervista a Giorgio Bocca, nella quale, ancora una volta, si lamentò della carenza di sostegno e di mezzi necessari per la lotta alla mafia, ma fece anche delle dichiarazioni clamorose che sconcertarono e aprirono uno scenario inquietante sul rapporto tra mafia, affari: “Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?”.
Scoppiò una polemica infuocata con una durissima presa di posizione dei Cavalieri del Lavoro catanesi Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro che furono appunto i proprietari delle quattro maggiori imprese edili catanesi, alle quali fece riferimento il Generale.
Intervenne anche l’allora presidente della Regione siciliana Mario D’Acquisto, che chiese a Dalla Chiesa di chiarire il contenuto delle sue dichiarazioni e, comunque, ad astenersi da tali giudizi qualora tali circostanze non fossero state provate. Ad Agosto ci fu una telefonata anonima che annunciò l’attentato al Generale dalla Chiesa.
L’esecuzione avvenne alle ore 21:15 del 3 settembre 1982 e la A112 guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata in via Isidoro Carini a Palermo da una BMW, dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47, che uccisero il prefetto e la moglie. Fu ucciso anche l’agente di scorta Domenico Russo, che seguiva la vettura del Prefetto con una propria auto e che venne raggiunta da una motocicletta dalla quale partì un’altra micidiale raffica. L’agente morì dopo 12 giorni di agonia all’ospedale di Palermo.
Il giorno dei funerali ci fu la presenza di una grande folla che protestò vibratamente contro le presenze politiche, accusandole di avere lasciato solo il generale e ci furono anche lanci di monetine e insulti al limite dell’aggressione fisica nei confronti delle autorità politiche e dello Stato.
Solo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini venne applaudito e risparmiato dalla durissime contestazioni. Durante le esequie la figlia Rita pretese che fossero immediatamente tolte di mezzo le corone di fiori inviate dal presidente della Regione Mario D’Acquisto e volle che sul feretro del padre fossero deposti il tricolore, la sciabola e il berretto della sua divisa da Generale con le relative insegne.
L’omelia del cardinale Pappalardo passò alla storia e fece la citazione di un passo di Tito Livio: “Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici…e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo”.
Per i tre omicidi sono stati condannati all’ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra, ossia i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci.
Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell’attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia, entrambi all’ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci a 14 anni di reclusione ciascuno.
La sentenza lascia aperta però inquietanti interrogativi sui moventi e sui mandanti di questa terribile strage mafiosa: «Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.
In altra occasione ci dedicheremo ad approfondire questo capitolo e anche a trattare della iscrizione del generale alla P2 di Gelli che rappresenta ancora una volta le scatole cinesi di misteri e intrighi e per capire se vi furono convergenze di interessi di “menti raffinatissime” nell’attuazione di questo omicidio “eccellente”.