Di Ambrogio Giordano
La teoresi della psicologia del male si deve al Dr Philip Zimbardo, uno psicologo americano figlio di immigrati siciliani cresciuto nel Bronx, ancora oggi Professore Emerito di Psicologia all’Università di Stanford.
Egli nel famoso esperimento, noto come Stanford Prison Experiment, ideò, con un team di psicologi dell’Università di Stanford, dal 14 al 20 agosto del 1971, uno specifico contesto con l’intento di studiare il condizionamento operato dalle istituzioni sul comportamento dell’individuo in un gruppo strutturato.
Riprodusse perciò in modo fedele l’ambiente di un carcere e per far ciò Zimbardo si rifece alle idee di Gustave Le Bon, studioso francese del comportamento sociale del primo Novecento.
In particolare la ricerca fu incentrata sulla Teoria della Deindividuazione, secondo la quale gli individui inseriti in un gruppo coeso costituente una folla, tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali e violenti verso cose e persone.
L’esperimento consisteva in una simulazione di vita carceraria condotta su 24 volontari che dovevano ricoprire i ruoli di prigionieri (12) e di guardie (12) per un periodo di 2 settimane. Fra i 75 studenti universitari che risposero a un annuncio apparso su un quotidiano che chiedeva volontari per una ricerca, gli sperimentatori ne scelsero 24, maschi, di ceto medio, fra i più psicologicamente equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti sociali devianti.
I volontari furono ulteriormente selezionati sottoponendoli ad un test psico-attitudinale al fine di scartare tutti coloro che potevano presentare potenziali problemi di personalità, devianze comportamentali e atteggiamenti violenti e furono in seguito assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. Zimbardo assunse il ruolo di direttore del carcere. I prigionieri indossarono ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia di fronte che dietro, un berretto, e una catena a una caviglia.
Dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie, invece, indossarono uniformi color kaki, occhiali da sole a specchio che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro un’ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine.
Zimbardo associò ad ogni ruolo dei simboli distintivi, abbigliamento ed accessori avevano lo scopo preciso di mettere entrambi i gruppi in una condizione di deindividuazione. L’esperimento iniziò con la simulazione, assolutamente realistica, dell’arresto dei futuri prigionieri che furono prelevati dal dormitorio dell’Università di Stanford da veri poliziotti e tradotti in carcere.
Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie che reagirono iniziando opere di intimidazione e umiliazione, cercando di spezzare i legami tra i prigionieri. Questi vennero costretti a pulire le latrine a mani nude, a defecare in secchi che non avevano il permesso di svuotare, a simulare atti di sodomia, a cantare canzoni oscene e spesso venivano denudati.
I detenuti tentarono di evadere e tale fuga venne sventata con difficoltà dalle guardie e dal direttore del carcere. Dopo 36 ore, delle crisi di nervi colpirono i prigionieri e uno di essi sentì la necessità di lasciare la sperimentazione. Dopo 5 giorni i detenuti mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: erano docili e passivi e il rapporto con la realtà si stava deteriorando, mostrando seri disturbi della sfera emotiva. Le guardie continuarono a praticare comportamenti vessatori e sadici dimostrando anch’essi un distacco dalla realtà anche nel loro ruolo.
Sia le guardie che i prigionieri si erano identificati in maniera forte e impressionante sia nel ruolo che nel contesto, per quanto riguarda i secondi, pur soffrendo, questi ultimi non presero in considerazione l’idea di lasciare l’esperimento ma continuarono a rimanere nella prigione intraprendendo continui tentativi di evasione.
Dati gli esiti drammatici, al sesto giorno Zimbardo decise di troncare l’esperimento con grande sollievo dei prigionieri e conseguente amarezza da parte delle guardie.
A seguito degli esiti sperimentali inattesi e sconcertanti, Zimbardo sostenne che le straordinarie trasformazioni avvenute negli individui resi capaci di commettere azioni mostruose è dovuto a ciò che egli denomina “Effetto Lucifero”, risultato dell’interazione tra fattori disposizionali quali conformismo e assenza di senso critico e fattori situazionali e sistemici propri del contesto. Il sistema sociale influenza le due variabili prima menzionate e definisce le norme implicite o esplicite che prescrivono come agire, fornendo i ruoli cui gli individui devono attenersi supportandoli e legittimandoli dal punto di vista delle risorse, dell’ideologia e delle regole dell’azione contestuale.
L‘Effetto Lucifero identifica il “contenitore malvagio” nel quale alcuni individui si trasformano in bruti, adottando un comportamento efferato, mentre altri ne subiscono gli effetti, reagendo successivamente anche loro in modo violento e brutale, generando così nel medesimo contesto deviato, gruppi sociali divisi e in competizione tra loro. La teoria dei “barili cattivi” analizza gli aspetti organizzativi per spiegare comportamenti scorretti e deviati dei dipendenti sul posto di lavoro.
Ampliando il concetto su scala macro sociale il contesto deviato si identifica in un sistema politico-economico fortemente ideologizzato, burocratizzato e retto da un rigoroso sistema gerarchico e funzionale, con una comunicazione di massa controllata, determinando situazioni che fungono da “bad barrel”.
“Ambrogio Giordano, è nato a Foggia il 05/09/1961 ed è attualmente Amministratore Unico di AMIU Spa – città di Trani (BT). Oltre a svolgere attività professionali in tutta Italia è stato per molti anni Dirigente Tecnico di AMIU Puglia Spa.
È laureato in Ingegneria Civile, Ingegneria Ambientale, Sociologia, Pianificazione Territoriale Urbanistica e Ambientale ed ha conseguito un Master universitario di II Livello in Scienze Criminologiche.
È Presidente nazionale della Fraternità Ortodossa, nominato in tale ruolo da Sua Beatitudine Mons. Filippo Ortenzi, Metropolita della Chiesa Ortodossa Italiana, di cui è stretto collaboratore rivestendo ulteriori ruoli all’interno della compagine ecclesiastica. Da anni si occupa di problematiche legate all’ambiente, nonché di temi sociali legati al mondo del lavoro, alle disabilità ed ai fenomeni di devianza sociale. Collabora con numerose Organizzazioni, Enti ed Associazioni con finalità sociali e culturali. Attualmente è presidente del comitato tecnico scientifico dell’Associazione Rinascita e Rose. Ha collaborato alla stesura di numerosi testi organizzando e presiedendo convegni inerenti tematiche legate alla filosofia e alla logica e tematiche socio-economiche.
Tra i suoi interessi la filosofia, i modelli matematici, la logica e le scienze sociali. Molti dei suoi scritti sono rintracciabili su numerosi blog e sui social network”.