Qassem Soleimani era il terzo uomo nella gerarchia della Repubblica islamica dell’Iran e gestiva la politica estera nel suo complesso, oltre a essere il capo delle Forze Al-Quds. L’omicidio della terza carica di uno Stato sovrano, membro dell’Onu, per iniziativa del presidente di un altro Stato sovrano è da considerarsi, oltreché un assassinio, una dichiarazione di guerra.
Peraltro invece dobbiamo stupirci che l’intellighenzia occidentale, i media e soprattutto la politica, le istituzioni, mostrino una totale riluttanza a esprimere con la verità dovuta questo inequivocabile aspetto. Immaginiamo, per traslazione, un intervento analogo da parte di un altro Stato, di cui non condividiamo politica e azioni, nei confronti della terza carica della nostra Repubblica. Nessuno di noi, neppure se tale carica fosse ricoperta da innominabili farabutti, comunque eletti secondo le regole democratiche, assolverebbe lo Stato aggressore e il suo primo rappresentante dall’aver compiuto tale crimine. Analogamente non comprendiamo come tutta una serie di scribacchini, colleghi e politici, illuminati docenti di diritto internazionale, cerchino di trovare l’aggancio ideale al fine di giustificare o non condannare questo delittuoso gesto reazionario.
In merito a quanto avvenuto, se non vi possono essere equivoci sulla sua matrice criminale, abbiamo però il dovere di esprimere più di un dubbio, lecito e probabile, in merito alle modalità dell’operazione. Ovvero che quella stessa strage, portata a compimento in Iraq, cui il presidente statunitense si attribuisce la paternità, in realtà voluta da Israele, non fosse già condivisa dalle potenze occidentali, Italia compresa, unitamente alla componente riformista iraniana.
Già la forte ascesa di Soleimani, che dal 1979 durante la rivoluzione non ha visto fermate, sembra aver avuto una forte accelerazione da quando il suo ruolo in Siria a sostegno del presidente Bashar al Assad lo ha visto vincente e interlocutore di primo piano con Vladimir Putin. Soleimani nel 2021 quasi certamente avrebbe affrontato la campagna elettorale per l’elezione alla presidenza della Repubblica iraniana, in contrapposizione al riformista e attuale diplomatico, dai saldi rapporti con l’occidente, Javed Zarif. Soleimani alla presidenza dell’Iran nel 2021 avrebbe significato un’inversione di marcia nella strada intrapresa verso le riforme auspicate dagli occidentali.
Un Iran non allineato e appartenente a un’area politico-internazionale incentrata sul Cremlino avrebbe visto in futuro una parte predominante del Medio Oriente, sotto un’egemonia cui gli Stati Uniti sarebbero stati esclusi o non primari. Non solo, ma le recenti manifestazioni dei ragazzi iraniani, soppresse dalle forze dell’ordine di regime, cui Soleimani era a capo, hanno messo in luce la divisione sempre più netta della popolazione della Repubblica islamica.
La prontezza con cui Soleimani è stato rimpiazzato dal suo vice, Esmail Qaani, su indicazione della guida suprema della Repubblica Ali Khamenei, può mostrare la volontà di reazione quanto quella di un mutamento strutturale delle forze Al-Quds, i guardiani della rivoluzione. Certo è che nessuno in Iran è disposto a intraprendere una guerra civile per affermare la propria forza, tanto meno se sollecitati dal dover puntare verso un obiettivo comune, ovvero gli Stati Uniti e Trump e Israele in particolare.
L’Iran avrebbe potuto subire un indebolimento sostanziale se al suo interno si fosse scatenata una lotta tra integralisti e riformisti, piuttosto che una compattazione come quella testé determinata dall’omicidio della terza carica dello Stato. Lo strascico di morti che deriverà da questo scontro non potrà essere controllato o guidato e sicuramente verrà subito, più che negli Usa, in Europa dai tanti cittadini ignari e indifesi, forse anche idealmente filoiraniani. Saranno “accettate” incursioni nel territorio iraniano o ai suoi margini nell’ottica di una risposta violenta ad atti subiti qua e là, e altrettanto violenti, ma tutto si terrà in un ambito di un confronto geopolitico, di cui l’Europa nel suo insieme sarà esclusa, oltreché vittima.
Di più, alcuni paesi, Francia in testa, giocheranno la carta dello scambio, il sostegno all’azione statunitense per mantenere il controllo sul territorio nord africano, come il consenso di Macron e le recenti azioni in Libia testimoniano.
Il 2020 si prospetta come un anno di svolta, pericoloso e oscuro, in cui i due vecchi paesi egemoni in ambito geopolitico, Usa e Russia, stanno giocando una partita in cui il confronto con la Cina è incentrato sull’indebolimento dell’Unione europea. Tutto questo non sarà né indolore né giocato secondo una visione di libertà democratica se verrà spinto da forze illiberali e reazionarie. Accettare la supremazia delle une o delle altre in “virtù” dell’idea di ciò che queste rappresentarono in origine, senza prendere parte e contrastare sul piano ideologico e fattuale la violenza cui vogliono destinare il Pianeta, appare inaccettabile. Vieppiù incomprensibile se tale appiattimento è determinato e portato avanti da chi, come noi, ha condotto battaglie epocali per la democrazia e la pace in un’epoca in cui il disastro nucleare sembrava essere inevitabile.