“C’è una tesi molto popolare di questi tempi nell’altro ramo del lago di Como, dove agli inizi di settembre si riuniscono politici, industriali e banchieri”, scrivono su “la Repubblica” Tito Boeri e Roberto Perotti in merito al Reddito di Cittadinanza.
Oggi, “per comodità” lo “chiameremo ‘il divano di cittadinanza’, le imprese faticherebbero a trovare i lavoratori di cui hanno bisogno perché questi se ne stanno comodamente sdraiati su di un divano con in tasca il Reddito di Cittadinanza”, scrivono gli economisti.
La battaglia che “per una volta ha messo d’accordo Giorgia Meloni e Matteo Salvini, è stata ripresa da Alberto Bombassei, presidente del gruppo Brembo, ed è rimbalzata fino a Ponte di Legno alla scuola di politica organizzata da Matteo Renzi”, scrivono Boeri e Perotti, tuttavia aggiungono, “non uno degli estensori di questa teoria si è preoccupato di raccogliere un dato per corroborare la sua tesi”, poiché “se lo avessero fatto, si sarebbero resi conto che solo un terzo di questi è in grado di lavorare e ha sottoscritto un Patto per il Lavoro e che, fra questi, una percentuale rilevante deve comunque ricevere formazione prima di essere collocabile”.
“Al di là del caso specifico – sottolineano i due economisti – è grave che in Italia si continui a discutere di cosa tenere e cosa cambiare delle politiche sociali in atto senza preoccuparsi minimamente di valutarne seriamente l’impatto con metodologie non spannometriche” ma “i teorici del ‘divano di cittadinanza’ farebbero bene a riflettere su alcuni studi recentissimi dell’esperienza statunitense, dove la riduzione in diversi Stati nella durata dei sussidi di disoccupazione non ha portato ad un aumento significativo dei flussi dalla disoccupazione al lavoro rispetto agli altri Stati”.
In conclusione, dicono Boeri e Perotti, questo “non significa che il Reddito di cittadinanza funzioni a meraviglia.
E’ anzi nostra convinzione che vada riformato. Può darsi che il suo importo sia eccessivo rispetto ai salari medi in certe regioni del Sud, ma questo è un argomento per differenziarlo tra regioni, non per abolirlo”, concludono, perché “l’Italia ha bisogno di uno strumento universale di contrasto alla povertà, che oggi hanno tutti i paesi della Ue. Deve sicuramente migliorare quello esistente, ma non deve abolirlo”.