Il valoroso sindacalista, Calogero Cangelosi, massacrato dalla mafia. Ai funerali partecipò Pietro Nenni

Aveva solo 41 anni Calogero Cangelosi, massacrato il primo aprile del 1948 a Camporeale. Il sindacalista socialista, finì per diventare un bersaglio della mafia del feudo per le sue continue prese di posizione a fianco dei contadini.

Era il segretario della Camera del lavoro del suo paese e il suo atroce omicidio avvenne a pochi giorni di distanza da quello di Placido Rizzotto, eliminato a Corleone il 10 marzo 1948, e da Epifanio Li Puma, ucciso a Petralia Sottana il 2 marzo dello stesso anno.

L’attuazione di questi tre omicidi di dirigenti sindacali Li Puma, sulle Madonie, Rizzotto a Corleone e Cangelosi a Camporeale, consentì alla mafia di intimidire e infliggere un colpo “mortale” contro le organizzazioni del movimento contadino della Sicilia occidentale.

Saranno ben 36 i morti che la Cgil subì tra 1945 e il 1966. E’ giusto tenere aperta la memoria per dare sempre forza e linfa alla legalità, alla libertà e alla democrazia affermando i diritti nel mondo del lavoro.

Il contesto in cui avvenne il delitto è Camporeale che quella sera vide come sempre i contadini che si riunivano in Piazza a parlare animatamente di fatti politici e in particolare delle elezioni politiche del 18 aprile.

In tutti era palpabile la paura per le azioni che compivano i “padroni del feudo”. Nella Camera del lavoro anche quella sera si discusse tutti insieme per le lotte da organizzare in modo da ottenere per l’applicazione dei decreti Gullo sulla divisione del grano a 60 e 40 e soprattutto sulla concessione alle cooperative contadine delle terre incolte e abbandonate degli agrari.

Poi, dopo le consuete discussioni animate e piene di fervore, Calogero Cangelosi, decise di tornare a casa. Ma alcuni compagni dissero: “Calogero, aspetta che ti accompagniamo noi”. E così Vito Di Salvo, Vincenzo Liotta, Giacomo Calandra e Calogero Natoli scortarono senza armi Calogero paventando la possibilità di brutte sorprese e i cinque uscirono dalla sede della Camera del lavoro avviandosi verso la casa di Cangelosi dove ad attenderlo c’erano la moglie e i suoi quattro figli.

Appena arrivati nei pressi dell’abitazione si udì un crepitare di mitra con decine di colpi, sparati in rapida successione e ad altezza d’uomo che colpirono immediatamente alla testa e al petto Cangelosi, il quale cadde sul selciato e morì immediatamente.

Mentre Liotta e Di Salvo furono colpiti e feriti gravemente, Calandra e Natoli invece rimasero illesi per puro miracolo Calandra e Natoli.

Il dramma si consumò alle 22.30 di quel maledetto giorno per Camporeale e quello che seguì fu angoscia e disperazione della moglie e dei parenti. Passarono ben quattro giorni prima che nel paese venisse il giudice del capoluogo che in quel momento era Trapani e succedeva anche questo all’epoca cosicché come racconta la moglie il cadavere di Calogero “era gonfiato tutto, fino a diventare irriconoscibile”.

Per i funerali che videro la presenza massiccia di tutti i contadini del paese e del territorio venne anche il segretario nazionale del Partito Socialista, Pietro Nenni.

La rabbia ribollì nella piazza del paese e i mafiosi scomparvero dalle viste per paura della reazione dei contadini. La reazione fu civile e democratica: mentre il 18 aprile il “Fronte Democratico Popolare”, composto dal Psi e dal Pci, fu sconfitto in tutta la Sicilia, a Camporeale invece ottenne ancora più voti delle regionali del ’47.

Non si riuscì a portare alla sbarra il mandante dell’omicidio del sindacalista nonostante tutti sapessero che a dare l’ordine di morte era stato il proprietario terriero “don” Serafino Sciortino, mentre gli autori dell’agguato furono il capomafia Vanni Sacco e i suoi “picciotti”.

Il messaggio di questi omicidi erano chiaro: nessuno doveva osare sfidare ricchi latifondisti e gabelloti mafiosi. Camporeale aveva nel 1948 appena 8 mila abitanti ed era uno dei più importanti comuni del latifondo della provincia di Trapani, al confine con la provincia di Palermo.

Cangelosi era ben consapevole dei rischi che correva perché prima di lui a dirigere la Camera del lavoro vi era stato Michele Abbate, colpito dal piombo mafioso appena qualche mese prima.

Gli agrari avevano in Vanni Sacco e i suoi picciotti l’esercito che doveva reprimere la protesta e la lotta dei contadini. Il mandato era quello di riportare l’ordine nei feudi, che veniva scosso e messo in discussione da quattro “teste calde” che parlavano di dignità, giustizia e libertà.

Per tutta la vita Vanni Sacco rimase legato alla vecchia mafia dei Rimi di Alcamo, di Badalamenti di Cinisi e di Navarra di Corleone.

E per questa vecchia mafia nessuno poteva mettere in discussione il potere dei padroni, dei gabelloti e dei campieri. Cangelosi lavorò come contadino, fu un uomo concreto e con idee chiare in testa.

Calogero ebbe grandi sogni che furono spezzati dalla persona che conosceva bene, don Serafino Sciortino, grosso proprietario terriero di Camporeale, di cui era mezzadro. Calogero, faticava e sudava facendo il suo lavoro, però il sindacalista non sopportava il fatto che “don” Serafino si riempiva i granai, ignorando volutamente i decreti Gullo.

Pertanto quando Cangelosi pretese per una senso di equità e giustizia che il grano andava diviso secondo le proporzioni del 60% ai contadini e del 40% ai proprietari, Don Serafino fece partire la “punizione” non prima di avere invitato Cangelosi a casa sua per un “ragionamento”.

Però ad attenderlo c’era Vanni Sacco e i suoi uomini, che lo sequestrarono, con la precisa intenzione di farlo fuori nello stesso modo con cui era stato ucciso a Corleone Placido Rizzotto.

In quell’occasione, qualcuno avvisò i contadini della Camera del lavoro del luogo in cui Calogero era tenuto prigioniero e così un “commando” di compagni, armati di lupare, riuscì a liberarlo.

Purtroppo, successivamente, la mafia condusse in porto l’operazione sopra descritta uccidendo il valoroso sindacalista. La famiglia di Calogero abbandonò Camporeale negli anni ’60 e la moglie descrisse con parole toccanti la condizione in cui vissero lei e i figli per oltre un decennio dopo la morte del marito.

“Quando me lo hanno portato via, povera anima del Paradiso! io non avevo niente, non possedevo nulla, se non un affitto da pagare e quattro figli da sfamare”.

E aggiunse: “Sono stata costretta ad andare in campagna a lavorare con gli uomini. Ricordo ancora i calli alle mani, le fatiche che ho dovuto sopportare. Ma i miei figli piangevano, volevano il pane, volevano le scarpe, ed io non sapevo più come aiutarli”.

“Mio marito – ricorda ancora Francesca – era iscritto al partito socialista e allora questo era considerato un reato. Lo avevano minacciato, ma lui mi diceva di non preoccuparmi perché non faceva male a nessuno. Calogero era un uomo sincero: quando è morto ha pianto tutto il paese. Ho cercato di ottenere una pensione minima, ma non ci sono riuscita. Poi, su consiglio di mio fratello, ci trasferimmo a Grosseto”.

Nel 1998 nel 50° anniversario dell’assassinio di Calogero Cangelosi, l’amministrazione comunale di centrosinistra, guidata dal sindaco Nicola Maenza, ha intitolato al sindacalista una piazza del paese e in tal modo si ruppe un silenzio e un oblio caduto sulla figura di Cangelosi.

Eppure vale la pena tenere viva la memoria di questo straordinario siciliano che non ebbe mai paura e che non chinò mai il capo poiché si batté a viso aperto, istruendo i contadini, per una più equa ripartizione dei prodotti della terra e per la riforma agraria.

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