8 marzo, la ricorrenza non divenga un rito

Come tutte le ricorrenze anche l’otto marzo può ricadere nella ritualità fine a se stessa, soprattutto quando nella prassi quotidiana, alla donna è prescritta una strada secondaria, separata e discriminante.

E’ impensabile che, esclusivamente attraverso una normativa esplicita in merito alle pari opportunità, si riesca a colmare questo deficit culturale e sociale, verso cui l’umanità è tristemente conformata.

La norma agisce laddove esiste un ostacolo palese, istituzionalizzato, non dove esso è di matrice culturale, atavica, verso cui l’educazione è stata ed è assente.

Cerchiamo sempre di ricorrere a rabberciare un costrutto sociale, senza mai intervenire nella sua “struttura portante”, l’educazione, l’etica.

Perché intervenire sull’educazione e indicare un’etica è contro il sistema economico, che capitalizza ogni azione a prescindere dal risultato.

E’ contro un potere dogmatico, reazionario e troppo spesso contro una democrazia dalla cui forma non deriva alcuna sostanza.

Così come gli “show” mediatici, privi di ricadute significative nell’agire quotidiano, costituiscono operazioni di promozione e capitalizzazione fine a se stessi.

Ancora oggi siamo di fronte a aziende che licenziano o fanno firmare alle donne, lettere di dimissioni in bianco, quale che sia la loro professionalità.

Esistono ancora le professioni cui l’opinione sociale e la cultura generale, definisce come più inclini alla donna o all’uomo, mettendo ulteriormente al margine chi non sente un’appartenenza stretta a uno dei due generi.

Questo Paese, più di altri, non ci stancheremo mai ripeterlo, deve investire nella scuola, nell’esteso ambito educativo che, non deve divenire uno “spazio” strettamente formativo per mestieri o professioni utili al grande capitale.

Ci fermiamo ancora a litigare su argomenti privi di sostanza, ma utili a far emergere idioti di entrambi generi.

Non dobbiamo rimarcare la differenza e la divisione attraverso attribuzioni nominative, quanto modificare il sistema sociale, costruito intorno all’uomo in quanto maschio.

E’ necessario rivedere gli spazi e i tempi, in ogni ambito lavorativo il cui paradigma ha una evidente matrice maschile.

Non modificare banalmente il nome a quello stesso ruolo, che resta immutato con le stesse caratteristiche maschili da cui è cadenzato, definito, esaltato.

L’uomo deve saper rivedere i propri tempi e le misure con cui ha definito gli spazi, in cui ha imprigionato se stesso, in primis, ma soprattutto ha cercato di piegare la donna e chi diversamente sente la propria identità sessuale.

E’ necessario l’incontro dialogico in un consesso da cui maturi la ridefinizione di tali spazi e dei tempi, delle professionalità analoghe nella loro definizione, ma differenti per le modalità di espletazione.

Quando sentiamo le espressioni con cui tanti uomini “auspicano” <<l’apporto del sapere femminile>> in un ruolo costruito per se stessi, cui nessuno di loro vuole ripensare, siamo di fronte a una terribile ipocrisia.

Un’ipocrisia che si cela dietro la vuotezza, cui i nomi, nella loro differente desinenza, apparentemente sembrano mettere a nudo.

Quando ci troviamo di fronte a un ingegnere o ingegnera, una direttrice o un direttore, un operaio o una operaia, un medico o una medica, un rettore o una rettrice, la nostra attenzione deve essere rivolta alle capacità professionali, alla dimensione specifica in cui esse sono inserite nel riconoscere chi le agisce.

L’economia in cui operiamo oggi, in senso esteso e sociale, è cadenzata nell’indifferenza delle esigenze umane, disconoscendole.

Essa tende ancor più a negare le differenze di genere, cadenzando il paradigma che la definisce, secondo le prerogative di chi detiene il potere.

Un potere di genere, quello maschile, che disegna e mitizza i propri spazi secondo le proprie esigenze, mascherandole in dimensioni apparentemente neutrali, cui svendono un’adattabilità in ambito femminile, operando la banale declinazione di genere.

Il nostro Paese non ha mai consentito che una donna guidasse i vertici istituzionali della Repubblica, quello del Presidente della Repubblica, e tanto meno quello dell’Esecutivo.

Nel tempo sono state “concesse” le presidenze del terzo e secondo scranno istituzionale, la Camera e il Senato, ma non abbiamo mai assistito a una istituzionalizzazione di una prassi democratica necessaria in tal senso.

Oggi un solo partito, e per ironia della sorte conservatore e di destra, ha alla sua guida una donna.

Altresì non è sufficiente o esaustivo imporre nell’ambito organizzativo dei partiti, una banale attribuzione di spazi nella composizione degli organi interni, secondo un equilibrio tra i generi.

E’ necessario che i partiti stessi, maturino un’adeguata transizione, verso una dimensione che non deve essere di esclusività maschile o di volta in volta, “indossabile” dalle donne che vogliono far politica.

Sono i partiti stessi che devono pensare, agire, secondo una condivisione, che non deve avere un’attribuzione specifica di genere.

Un salto che non potrà mai avvenire, se non si decide di investire nell’educazione, per tutto il percorso scolastico, da cui scaturirà una conseguente maturazione e normalizzazione, in cui la differenza, e le differenze in generale, costituiranno la ricchezza dell’Umanità.

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